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Tira aria di rivolta in Cina

Tira aria di rivolta in Cina. Dopo il trionfo di Xi Jinping nel XX congresso del Partito comunista cinese, nessuno s’attendeva che nel grande Paese asiatico scoppiassero rivolte a ripetizione. Eppure proprio questo è accaduto.

Dapprima si sono ribellati gli operai della grande fabbrica della Foxconn a Zhengzhou, dove vengono assemblati gli iPhone 14. La ribellione è stata causata delle condizioni – da loto stessi definite “inumane” – in cui sono costretti a lavorare. Proseguendo la politica del “Covid zero”, che sta causando danni enormi all’economia cinese, le autorità hanno decretato nello stabilimento della Foxconn l’ennesimo lockdown, obbligando i lavoratori a restare in sede giorno e notte, senza la benché minima possibilità di uscire.

Di qui la rivolta con l’intervento molto duro della polizia in assetto anti-sommossa. Gli scontri sono stati violenti, come testimoniano alcuni filmati sfuggiti alla rigida censura del regime. Molti operai sono comunque riusciti a fuggire a piedi dall’azienda, e sono prevedibili le punizioni quando la polizia riuscirà a catturarli.

In seguito si è verificato un drammatico incidente a Urumqi, la capitale del Xinjiang, regione autonoma dove vivono gli uiguri musulmani perseguitati dal regime. A causa del solito lockdown, i soccorritori non hanno potuto raggiungere in tempo un edificio in cui era scoppiato un incendio, e ci sono stati dieci morti.

L’episodio ha innescato una serie di manifestazioni pubbliche che si sono diffuse in molte metropoli cinesi, anch’esse sottoposte a un rigidissimo lockdown. Violenti scontri con la polizia si sono avuti a Shanghai, Pechino, Nanchino, Wuhan (luogo d’origine del Covid 19) e in tante altre città.

A differenza di quanto accadeva in passato, tuttavia, i manifestanti (tra cui molti studenti) non hanno avuto paura di scontrarsi violentemente con le forze dell’ordine, nonostante il loro massiccio dispiegamento in tutti i luoghi degli incidenti. Hanno inoltre scandito slogan contro il regime e lo stesso Xi Jinping, invitando il leader a dimettersi e il Partito comunista – al governo ininterrottamente dal lontano 1949 – a restituite ai cittadini libertà di parola e di riunione.

I cittadini cinesi vogliono insomma vivere in uno Stato di diritto, in grado di garantire il rispetto dei diritti umani fondamentali. Ora non è così, poiché il Partito (che s’identifica con lo Stato) reprime senza remore ogni manifestazione di dissenso, e ha rinchiuso l’intero Paese in una sorta di “gabbia informatica” che consente di accedere ai soli social media autorizzati dal regime, escludendo ogni contatto con quelli occidentali.

Si tratta, insomma, di una situazione molto simile a quella del 1989, quando le proteste vennero schiacciate con il grande massacro di Piazza Tienanmen. Si ratta ora di vedere come si comporterà Xi Jinping che, reduce dalla sua terza rielezione, si è circondato di fedelissimi eliminando ogni opposizione interna. Aumenterà la repressione o farà concessioni? Non pare, al momento, che intenda rinunciare ai lockdown e alla politica “Covid zero” nonostante il suo evidente fallimento.

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Michele Marsonet

Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova

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