L’inutile polemica sul concetto di “élite”. Per motivi legati alla prevalenza di alcune correnti del pensiero filosofico e politico nazionale, il termine élite, quando viene utilizzato nel dibattito pubblico, causa apprensioni e scatena polemiche. Tempo fa, per esempio, accadde dopo un discorso di Mario Monti in cui l’allora premier disse che un sistema democratico funziona solo quando mette in grado le élite di governare.
Gli attacchi si sprecarono, sia sul versante di destra sia su quello della sinistra. Una rassegna di tali critiche sarebbe istruttiva, ma temo che finirebbe con l’annoiare i lettori. Mi limito allora a citarne una che ho trovato davvero curiosa. Secondo alcuni politici, con una simile affermazione Monti lasciava capire di avere in mente una sorta di “governo del Rotary”.
Eppure è noto agli studiosi che in Italia abbiamo avuto grandi pensatori che su questo tema scrissero opere conosciute nel mondo intero. Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto sono gli esempi più celebri. Lo stesso Luigi Einaudi fornì contributi notevoli ponendosi il problema della selezione della classe dirigente.
Poiché gli attacchi più virulenti provengono dalla sinistra, mette pure conto rammentare che le riflessioni di Antonio Gramsci sull’argomento sono diventate classiche, indipendentemente dal fatto che le si condivida o meno. Il teorico sardo aveva ben chiaro in mente che le masse non governano mai in modo diretto, bensì mediante delega rilasciata a particolari gruppi che costituiscono, per l’appunto, delle élite. Se il termine infastidisce lo si può tranquillamente sostituire con un altro, ma la sostanza non cambia.
Dove stia lo scandalo è un mistero. Posso solo immaginare che in alcuni settori del nostro mondo politico e culturale risulti tuttora radicata la convinzione che le masse siano in grado di autogovernarsi senza deleghe di sorta, mediante forme di assemblearismo che, quando sono state messe in atto, hanno sempre fallito. Semplicemente perché la gestione politica non può essere affidata alle assemblee popolari senza alcuna forma di mediazione.
In realtà, prescindendo dalla terminologia, il vero problema è proprio quello posto con lucidità dal liberale Luigi Einaudi: non v’è speranza che la democrazia, intesa come metodo di governo, possa sopravvivere se non sa dotarsi di un metodo per selezionare la propria classe dirigente.
Chi parla di “vulnus alla democrazia” per il fatto che Giorgia Meloni vuole inserire dei “tecnici” nel futuro governo dimentica un fattore essenziale. I partiti non solo si sono dimostrati incapaci di selezionare una classe dirigente degna di questo nome, ma ne hanno al contrario prodotto una che confonde spesso l’interesse privato con quello pubblico.
D’altra parte la storia insegna che il semplice criterio della maggioranza, pur attraente sul piano teorico, non è difendibile in assoluto. Gli esempi atti a suffragare questa tesi sono tantissimi, e quello più citato (e forse abusato) fa riferimento a Hitler che conquistò il potere in Germania grazie all’appoggio della maggioranza degli elettori. Trovare dei criteri che consentano la selezione delle élite diventa, a questo punto, una necessità, pena la fine della stessa democrazia.
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