Mi sono svegliato così, stamattina sul presto, otto marzo del duemiladiciannove, che sarebbe un qualsiasi venerdì, se non fosse un giorno speciale, che voglio dedicare alla mia fantastica, dolce sorella Paola, volata via appena un mese fa e a tutte le donne che, forti della loro fragilità, nel tempo e nello spazio, hanno generato e tutelano l’umano divenire. Lo dobbiamo sempre ricordare a noi stessi , maschi e femmine, che non rappresentiamo un elemento di genere, magari anagrafico, né tanto meno un mero argomento per analisi e statistiche sociali, che vedono ancora algoritmi impressionanti tra le diverse etnie del pianeta terra, senza trascurare questioni di religione e censo, oltre che di sesso. Comunque la si metta, le donne nascono con ruolo straordinario, con una missione che tra gli umani è ben di più di quello che la natura assegna al genere femminile. L’essere madri potenziali o di fatto, pone le donne sul gradino più alto, indipendentemente da quanto loro viene riconosciuto convenzionalmente, nella forma. Nessuno, maschio o femmina, prescinde dal miracolo cosmico che rappresenta il primato assoluto dell’accoglienza e dell’amore, quello materno, senza il quale nessuno di noi umani starebbe qui a parlare, ma reciterebbe un ruolo ben diverso nel regno animale. Ecco, il rispetto ed il sentimento filiale, hanno e dovrebbero avere un valore reale, assoluto, che dovrebbe rappresentare la chiave lettura del rapporto con tutte le donne , che dovrebbe andare ben al di là di quello dell’appartenenza, di quello con la propria singola madre. Purtroppo la genialità umana ha prodotto intorno alla figura reale e simbolica della donna enfatizzazioni positive, elegiache, ma anche aberrazioni culturali, da cui è difficile liberarsi, se non attraverso una educazione diversa o in modo rituale, episodico, in una giornata come questa, il cui le mimose finiscono per supplire alle parole, ai convenevoli, che finiscono spesso nel vento o che addirittura nel tempo si trasformano, sino a divenire minacce e non solo. Quanto alle donne viene ingiustamente negato dalla collettività si trasforma puntualmente in un prezzo altissimo da pagare, ma tant’è. Diversamente mi voglio affidare alla intrigante leggerezza , alle delicatezza poetica di un testo, alle note di una canzone in voga all’inizio degli anni settanta, quando a cantarla spesso era proprio mia madre e ad ascoltarla, con mio padre, Paris, eravamo io e la mia sorellina Paola (nel fulgore dei suoi vent’anni) che sul tema delle pari opportunità, non soltanto di genere, avrebbe mantenuto un impegno assoluto per tutta la vita, sino al suo ultimo respiro…
“Cara, cosa mi succede stasera, ti guardo ed è come la prima volta
Che cosa sei, che cosa sei, che cosa sei
Non vorrei parlare
Cosa sei
Ma tu sei la frase d’amore cominciata e mai finita
Non cambi mai, non cambi mai, non cambi mai
Tu sei il mio ieri, il mio oggi
Proprio mai
È il mio sempre, inquietudine
Adesso ormai ci puoi provare
chiamami tormento dai, già che ci sei
Tu sei come il vento che porta i violini e le rose
Caramelle non ne voglio più
Certe volte non ti capisco
Le rose e violini
questa sera raccontali a un’altra,
violini e rose li posso sentire
quando la cosa mi va se mi va,
quando è il momento e dopo si vedrà
Una parola ancora
Parole, parole, parole
Ascoltami
Parole, parole, parole
Ti prego
Parole, parole, parole
Io ti giuro
Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi …”
Ruggero Alcanterini