Care ragazze e ragazzi, non vi nascondo che nel passare del tempo, nel traguardare un anno dopo l’altro, anche nel passaggio di questo ormai prossimo emblematico ventennio del Terzo Millennio, non posso che fare rifermento ad un imperativo e cioè quello di vedere il bicchiere mezzo pieno e con un po’ di fantasia creativa il bello e il piacere della vita, lo stesso fondamentale sentimento che a cavallo dell’otto/novecento trovò nell’austriaco Klimt e nell’italiano D’Annunzio due cantori straordinari. Erano nati a distanza di un anno l’uno dall’altro e si esprimevano con pennello e penna, promanando la vitale freschezza dell’arte nuova, non senza esagerazioni, non senza tonalità dirompenti, imbarazzanti: giusto quelle che per loro hanno fatto la differenza e per noi il piacere di ammirarne la genialità delle opere. Gustav se ne andò troppo presto, per le conseguenze di un ictus ad appena cinquantasei anni, nel 1918, mentre gli crollava intorno l’Impero. Gabriele , invece, ebbe più tempo per stemperare gli entusiasmi della vittoria del Regno e metabolizzare la tristezza della lenta decadenza fisica, sino al 1938. Vite intensamente vissute, matrici, macché vortici esplodenti rivoluzionarie emozioni. Formidabile fu il loro coraggio di manifestare le policromie e le sinfonie della bellezza e dell’eros, che da sempre incorniciano il nostro essere ed il nostro divenire. Messaggi d’incomparabile energia, impattanti tal quali la luce e l’oscuro del Caravaggio, dissacranti, rivelatori e oggetto di censura, come furono scritti e discorsi di Giordano Bruno. Insomma, dovremo un giorno o l’altro farcene una ragione, perchè la natura, le pulsioni, i sentimenti, il piacere ed anche il dolore rappresentano noi stessi in vita, salvo l’estremo della morte, del cui trionfo si occuparono comunque i nostri citati straordinari testimoni del divenire. E le signore? Le signore, che non hanno mai lasciato indifferenti i signori, compresi noi, modesti epigoni di tanto acume e di tanta sensibilità artistica, sono giustamente al centro di questo universo straordinario di cui siamo parte attiva, nel bene e nel male. E’ anche per questo, che dovremmo avere rispetto per la natura, la nostra stessa.
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Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell’aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un’ora d’intimità. Ella aveva molt’arte nell’accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po’ indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell’atto un po’ faticoso, per i movimenti de’ muscoli e per l’ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d’un pallor d’ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio.
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Ella saliva d’innanzi a lui, lentamente, mollemente, con una specie di misura. Il mantello foderato d’una pelliccia nivea come la piuma de’ cigni, non più retto dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle. Le spalle emergevano pallide come l’avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali; e su dalle spalle svolgevasi agile e tondo il collo; e dalla nuca i capelli, come ravvolti in una spira, piegavano al sommo della testa e vi formavano un nodo, sotto il morso delle forcine gemmate.
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Insieme, tornarono verso il ponte. Il corso dell’Aniene ora andavasi accendendo ai fuochi dell’occaso. Una linea scintillante attraversava l’arco; e in lontananza le acque prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero chiazze d’olio o di bitume. La campagna accidentata, simile ad una immensità di rovine, aveva una general tinta violetta. Verso l’Urbe il cielo cresceva in rossore.
(Gabriele D’Annunzio – Il Piacere)