18 GIUGNO 2019
– Credo che l’epilogo della vicenda Totti, ieri, in quel Salone del CONI dedicato all’Onore, abbia dato significato al valore dell’appartenenza, ovvero più del formale giuramento di fedeltà ad una bandiera, testimoniando un attaccamento le cui radici vanno ben al di là di quanto un Club, sia pure storico, possa rappresentare. E’ evidente che i motivi di una gestione ragionieristica, destinata al puro profitto ed ai rientri di capitale, non hanno nulla a che vedere con il sentimento e che collidono con il modo “alieno” di pensare ed agire di uno come Francesco. Tanto per fare un esempio, Fulvio Bernardini, cui è intitolato lo stesso “quartier generale” giallo-rosso di Trigoria, passando da giocatore ad allenatore, a dirigente, partendo dalla Lazio, era transitato per l’Inter, prima del glorioso periodo romanista, per poi regalare la sua scienza calcistica alla Reggina, al Vicenza, alla Fiorentina, di nuovo alla Lazio, al Bologna e alla Sampdoria, oltre che alla Nazionale… Che dire dunque di uno come il Capitano “Unico”, sempre con la stessa maglia ? Se non che si tratta di un personaggio diverso e peraltro raro, sicuramente ingombrante, al punto di essere stato spinto prima ad un prematuro addio al campo e poi parcheggiato in un binario morto, come una gloriosa locomotiva in attesa che la ruggine ne completi la distruzione. Ma perché mi coinvolgo nel paradosso “tottiano”? Perché nei suoi occhi tristi, velati dalla delusione, dal dolore di chi si sente deluso, estraniato dalla propria matrice, vedo riflessa l’immagine di altri, cui inesorabilmente è toccata la stessa sorte, come lo stesso Giulio Onesti, padre putativo del CONI e della rinascita dello sport italiano, messo cinicamente da parte nel 1978. E allora ? Allora, purtroppo, bisogna capire quand’è il momento di lasciare, magari con squilli di trombe e rullar di tamburi, comunque, per scelta o per un destino, magari cinico e pure baro.