Senza dubbio John Dewey è una figura chiave della filosofia del ’900, non solo americana. Il continuo sviluppo della scienza sperimentale costituisce per lui una condizione necessaria per conseguire il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità. Tuttavia, in sintonia con l’intera tradizione pragmatista, Dewey non è scientista come i positivisti; a suo avviso il ruolo della scienza nell’esperienza non è un assoluto, ma uno dei tanti fattori che concorrono alla formazione della nostra visione globale del mondo, alla pari con l’arte, l’etica e la politica.
Il filosofo statunitense ritiene, infatti, che sia errato e controproducente considerare la ricerca scientifica unicamente quale mezzo per dominare la natura: egli afferma che una simile concezione rappresenta la conseguenza di una visione della natura e della scienza storicamente datate. Il naturalismo evoluzionistico deweyano porta invece a concludere che l’uomo è parte della realtà naturale, e non un ente che per ragioni misteriose si contrappone a essa proponendosi di piegarla interamente ai suoi fini.
Dunque l’uomo si ritaglia un posto speciale nella realtà naturale perché, a differenza degli altri esseri animati, è in grado di controllare la formazione delle sue stesse abitudini mediante la fissazione di regole sociali. La principale conseguenza di questo stato di cose è che egli può deliberatamente modificare sia la direzione della sua evoluzione, sia quella dell’ambiente circostante.
Il naturalismo evoluzionista pertanto discende dal fatto che l’esperienza, lungi dall’essere qualcosa di inesplicabile, viene vista da Dewey come il risultato della continua interazione fra organismo e ambiente. Ne segue che gli stati della nostra esperienza non sono una barriera che ci separa dalla natura. L’organismo – il sé, il soggetto dell’azione – è uno dei fattori che determinano l’esperienza stessa, e non un’entità estranea a essa alla quale gli stati d’esperienza vengono, per così dire, “attaccati”.
Secondo la visione deweyana la natura – intesa come la totalità degli oggetti della conoscenza – è intimamente legata alle transazioni che avvengono continuamente tra organismi e ambiente, il che significa che essa non può essere concepita prescindendo dall’interazione umana. A differenza degli empiristi e degli idealisti, Dewey sostiene che il mondo naturale non è “dato” in modo diretto né rappresenta una pura costruzione mentale. La natura è invece articolata su più livelli e, per quanto riguarda gli esseri umani, è stata costruita mediante un lento processo di tipo storico.
Natura e cultura, insomma, non possono essere artificialmente scisse, né si può pensare che la natura intesa come prodotto culturale possa essere “completata”. Gli esseri umani la ri-costruiscono e la ri-valutano incessantemente, adattandola alle condizioni sempre mutevoli in cui si trovano ad agire.
Inoltre la “ricerca della certezza” è a suo avviso un obiettivo fuorviante, in quanto nessun privilegio dev’essere attribuito al soggetto. Contrariamente alle tesi di Cartesio e di Kant, Dewey afferma che anche il sé è una costruzione la quale – proprio in quanto tale – non viene esperita su un piano privato e immediato. Il sé è un elemento dell’ambiente al pari di altri elementi. Lo stesso può dirsi della natura che, più che come indipendente dal soggetto, dev’essere considerata alla stregua di “matrice” di oggetti ed eventi. Pertanto né il sé né la natura possono fornire dei fondamenti neutrali e oggettivi alla nostra conoscenza.
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