Fino a che punto possono gli scienziati prendere le distanze nei confronti del potere? In realtà, la responsabilità morale degli uomini di scienza non può essere separata dal problema del potere politico. Soltanto la prospettiva di una vittoria dei nazisti, che gli appariva il male assoluto, indusse Einstein a consigliare il presidente Roosevelt di non lasciare a Hitler il monopolio della bomba nucleare. Dal canto suo Oppenheimer, che per lungo tempo ebbe fama di “falco”, cercò in seguito di prendere le distanze dal proprio passato, dicendosi convinto che uno studio più approfondito avrebbe potuto condurre i responsabili dei progetti nucleari a una visione diversa dei possibili impieghi delle nuove armi.
Quando scienziati come Einstein e Oppenheimer entrano a far parte di comitati governativi come quello per la costruzione dell’arma nucleare, essi diventano a tutti gli effetti consiglieri tecnici del potere: il parere che viene loro chiesto implica una scelta politica estremamente importante. Essi non agiscono – in tali circostanze – come ricercatori scientifici puri, ma in quanto cittadini la cui professione li pone in possesso di informazioni preziose circa un problema vitale per la nazione.
Non v’è dubbio che si debba tracciare la necessaria distinzione tra le responsabilità dello studioso e quelle del politico. Tuttavia, le conoscenze che detiene lo scienziato non gli conferiscono diritti particolari negli affari pubblici. Allo stesso modo, egli non è tenuto a rispondere del buono o cattivo uso che la collettività farà del frutto dei suoi lavori: lo scienziato è responsabile soltanto del loro valore scientifico. Questa posizione è sicuramente più vicina alla concreta realtà umana delle utopie di Heisenberg, Einstein e Bohr, che sperarono nell’avvento di una sorta di “ordine internazionale degli intellettuali” per impedire il cattivo uso dell’energia nucleare e assicurare la pace mondiale.
Senza negare la nobiltà d’intenti di tanti scienziati, non si può fare a meno di pensare, quando si conoscano gli ambienti scientifici “reali”, che essi siano stati dominati da una qualche forma di idealizzazione. Coloro che vivono in tali ambienti non sono affatto esenti dalle più elementari debolezze umane: sentimenti di frustrazione, di gelosia, di rivalità, intervento prevaricante dell’interesse personale o di preferenze affettive nel loro comportamento verso gli altri. Gli scienziati, insomma, sono esseri umani come tutti gli altri.
E’ interessante notare, a questo proposito, come si possa tracciare un parallelo tra utopie scientifiche e politiche. In ambito marxista, ad esempio, si è partiti per decenni dal presupposto che alcuni rivoluzionari di professione avessero accesso diretto alla teoria “vera”, in grado di condurre alla liberazione definitiva del genere umano, e che gli assiomi indiscutibili di detta teoria dovessero essere trasmessi in modo automatico alle masse. Abbracciando acriticamente una tale concezione, si dava per scontato che tali rivoluzionari fossero dei super-uomini non sottoposti al normale travaglio delle passioni, degli egoismi e dei desideri.
Se si esaminano dunque gli atteggiamenti dei grandi scienziati durante gli anni drammatici del secondo conflitto mondiale (e poi della Guerra Fredda), si vedrà che essi sono stati divisi e incerti, e che le forze politiche del tempo li hanno condizionati e manovrati come hanno fatto con gli altri uomini. Gli scienziati non vivono in un mondo separato da quello dell’uomo della strada; una volta lasciato il laboratorio, essi si ritrovano nel mondo del senso comune come tutti gli altri membri del genere umano. La competenza scientifica – per quanto eccezionale sia – non basta a conferire in ogni circostanza autorità morale.
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