Nonostante i tentativi vaticani di mantenere un dialogo alla pari con la Repubblica Popolare Cinese, il percorso si fa sempre più difficile. Violando l’accordo stipulato nel 2018 e in seguito rinnovato, il governo cinese ha nominato in modo unilaterale il nuovo vescovo di Shanghai, la diocesi cattolica più grande e importante del Paese.
E’ il 53enne Mons. Giuseppe Shen Bin, vicepresidente della “Associazione cattolica patriottica cinese”, che è stata creata per gestire gli affari religiosi attenendosi alle indicazioni delle autorità centrali. Il nuovo vescovo è noto per la sua fedeltà alle direttive del Partito comunista.
Come è già accaduto in passato, la Santa Sede è stata informata della nomina soltanto ex post, dopo che il prelato si era già insediato. Immediata la protesta di Roma che, tuttavia, non ha sortito effetti.
Il 24 novembre, a Nanchang nella provincia di Jangxi, le autorità cinesi hanno nominato mons. Giovanni Peng Wei-zhao quale vescovo ausiliare di Janngxi. Il problema è che tale diocesi non è riconosciuta da Roma e, stando a quanto si sa dell’accordo, la nomina è illegale. E non bisogna scordare l’arresto del 92enne cardinale Joseph Zen Ze-kiung, vescovo emerito di Hong Kong, notoriamente contrario al dialogo.
I dettagli dell’accordo non sono noti, ma le fonti ufficiali vaticane hanno più volte ribadito che esso prevede nomine “congiunte”. Ciò implica che una nomina, per essere valida, necessita dell’approvazione preventiva del Vaticano.
L’ultimo episodio dimostra che Xi Jinping e il suo gruppo dirigente vanno dritti per la loro strada. Vogliono insomma una Chiesa cattolica “nazionale” che obbedisca alle direttive e non ostacoli i messaggi ideologici del Partito.
Si cerca ora di capire come Papa Francesco e il suo Segretario di Stato Pietro Parolin reagiranno al nuovo schiaffo. Prevedibili ulteriori critiche da parte di ambienti della Curia che accusano Jorge Bergoglio di eccessiva condiscendenza nei confronti della Repubblica Popolare.