Tempeh, noodles, formaggi, ma anche vino e birra sono gli alimenti fermentati consigliati dai medici. Perché aiutano la digestione, combattono gli sprechi alimentari e depurano l’organismo, agevolando la prevenzione di patologie infiammatorie. Per conoscere la lista completa e i motivi degli esperti, dovete visionare il corso online ECM FAD dal titolo “Nutrizione e microbiota: c’è fermento”. Intanto vi diciamo che tra gli alimenti più “noti” c’è lo yogurt, ma il menù di chi è interessato a questo tipo di cibi può essere molto più appetitoso: si va dai formaggi stagionati, come gorgonzola e provolone, a pietanze decisamente più etniche come il tempeh, molto popolare in Indonesia e nel sud-est asiatico; senza dimenticare i noodles, tipologia di pasta asiatica, e cocktail messicani come il tepache. Tra le bevande fermentate più celebri, che possono contribuire al benessere del microbiota, ricordiamo soprattutto il vino rosso e la birra.
Per saperne di più, noi de L’Eco del Litorale abbiamo intervistato il dottor Andrea Pezzana, medico e docente dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, nonché responsabile scientifico del corso (disponibile sul sito www.corsi-ecm-fad.it) che, con il contributo anche di altri esperti quali, ad esempio, la professoressa Chiara Cordero, docente di Chimica degli Alimenti presso l’Università degli Studi di Torino e la dottoressa Michela Zanardi, specialista in Scienza dell’Alimentazione, hanno articolato le “risposte” in cinque lezioni.
Dottor Pezzana, qual è il ruolo benefico della fermentazione alimentare?
«Quello che possiamo dire con certezza è che, ad esempio, i due stili alimentari che l’Unesco ha inserito nel patrimonio mondiale dell’umanità, che sono la dieta mediterranea e la dieta washoku tradizionale giapponese, sono due stili alimentari che contengono un’enorme quantità di cibi fermentati. I cibi fermentati fanno bene sostanzialmente per due ordini di ragioni: la prima è che spesso quando li consumiamo, consumiamo insieme al cibo anche i ceppi batterici che hanno indotto la fermentazione. Pensando, ad esempio, a tutta la filiera dei latti fermentati ma anche di molti vegetali che consumiamo fermentati senza rendercene conto come alcuni vegetali conservati, come le olive, eccetera. In questi casi il vantaggio è che l’assunzione del cibo si associa all’assunzione di, diciamo, batteri vivi che contribuiscono al benessere del nostro microbiota: questa enorme quantità di cellule che sono i nostri compagni di viaggio e che determinano molto la nostra salute o la nostra malattia. Un altro grande ruolo dei cibi fermentati, pensiamo ad esempio alla filiera della produzione del pane, dei lievitati, dei cereali, è che a volte consumandoli non c’è più traccia del fermento in quanto le cotture ad alte temperature li disattivano, ma il cibo fermentato ha una biodisponibilità sia di macro ma soprattutto di micro nutrienti, di sostanze molto coinvolte nei percorsi di prevenzione delle malattie croniche e degenerative che sono importantissime. E questo, in un certo senso, differenzia le produzioni tradizionali dalle produzioni diciamo fortemente improntate da una trasformazione industriale. Noi non dobbiamo demonizzare i percorsi produttivi che inseriscono, come dire, anche per rendere più disponibile a una certa parte di mondo alcuni processi che migliorano la conservabilità, ad esempio, la diponibilità; quindi non dobbiamo guardare con sospetto a tutta l’industria alimentare. Ma, soprattutto, a quell’industria alimentare che poi con dell’ingredientistica ad esempio molto lontana da quelle che sono le modalità tradizionali e artigianali di preparazione aggiunge quelli che veramente oggi possiamo definire “big killer” per il nostro secolo: il sale, il sodio, il sale, gli zuccheri semplici e alcuni grassi non salubri, sicuramente gli acidi grassi trans ma anche, in alcuni casi, dosi eccessive di grassi saturi».
Possiamo sostenere che elementi come la birra, il formaggio stagionato, comunemente etichettati come negativi per la salute, possono effettivamente essere consigliati nelle diete?
«Diciamo che i due esempi sono molto diversi fra di loro: i formaggi stagionati, i formaggi di qualità, se provengono da una filiera latte di alta qualità, ovviamente con la consapevolezza che consumiamo un prodotto molto calorico, che quindi non può essere destinato all’uso quotidiano, sono dei cibi molto interessanti. Ci sono molti studi che stanno evidenziando, ad esempio, che se il latte è veramente di alta qualità, i formaggi che derivano da questi latti contengono non solo un’elevata quantità di grassi ma anche un ricordo, ad esempio, di quei grassi più buoni che sono presenti nei foraggi che derivano dall’erba fresca o dal fieno e che portano, ad esempio, a una certa quantità di omega 3 e soprattutto di una sostanza che oggi si sta studiando molto: il CLA, cioè l’acido linoneico coniugato, che in alcuni studi, ad esempio, sembrerebbe essere non l’unica ma una delle sostanze coinvolte, ad esempio, nella grande longevità della popolazione di alcune zone interne della Sardegna. La birra apre un po’ uno scenario diverso perché il concetto del contenimento del consumo delle bevande alcoliche in qualche modo è un discorso più complesso però sicuramente birre artigianali a gradazione alcolica non troppo spinta possono essere una buona alternativa ad altre bevande alcoliche, purché con moderazione».
Lei faceva riferimento alla dieta mediterranea e alla dieta giapponese che sono state entrambe definite patrimonio dell’Unesco. Cosa le accomuna?
«Le accomuna sostanzialmente, come dire, l’aver espresso il massimo di simbiosi mutuamente utile tra una popolazione e il territorio che questa popolazione occupa, quindi è un doppio concetto: grande salute nel senso più facilmente comprensibile, cioè uno stile alimentare che si riflette sulla salute di chi lo consuma, ma soprattutto un rapporto non di predazione ma di mantenimento delle risorse dei territori e del terreno anche per le generazioni future: questa è una grande lezione che dobbiamo portare tutti a casa».