Dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan, sono state avviate trattative ufficiali tra Washington e Taipei per realizzare un accordo di libero scambio tra i due Paesi, lo “US-Taiwan Initiative on 21st Century Trade” che dovrebbe ulteriormente rafforzare i già intensi rapporti economici e commerciali bilaterali. Per governo e abitanti dell’isola si tratta di una grande notizia. Significa, infatti, che l’America non intende abbandonarli e, al contrario, s’impegna a garantire il libero accesso a Taiwan sia via mare sia via cielo, nonostante i blocchi minacciati dall’Esercito popolare di liberazione cinese.
E’ pure ovvio, tuttavia, che la libertà commerciale, anche se incrementata, non basta. E questo resta vero finché gli Stati Uniti rimarranno avviluppati nella cosiddetta “ambiguità strategica” che li porta, da un lato, a difendere (anche militarmente) Taiwan e, dall’altro, li costringe ad accettare lo slogan “una sola Cina” imposto da Pechino all’intera comunità internazionale.
Pur riconoscendo che la realpolitik è uno strumento essenziale nelle relazioni tra Stati, è ovvio che Taiwan potrà sentirsi al sicuro solo se la sua indipendenza come nazione sovrana verrà riconosciuta, se non da tutti, almeno da un numero sufficiente di altri Stati. Tuttavia, considerata la situazione attuale, stringere rapporti diplomatici ufficiali con Taipei significa, automaticamente, romperli con Pechino. O almeno tale è l’opinione diffusa, giacché non esistono prove al riguardo.
Si tratta di un dilemma che gli USA e i loro alleati dovranno prima o poi affrontare in modo serio, perché Xi Jinping si trova a governare un Paese che ora è in difficoltà dal punto di vista economico (anche se molti italiani non ci credono). Potrebbe dunque essere tentato dal “colpo di forza” annettendo l’isola, per presentarsi all’imminente congresso del Partito come colui che è riuscito dove aveva fallito anche Mao Zedong. Rischia di scatenare il terzo conflitto mondiale, ma sicuramente nel Partito nessuno gli negherebbe il tanto agognato terzo mandato.
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