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XVII GIOCHI OLIMPICI – ROMA 1960 – IL DOVERE COMPIUTO (292a puntata) PALLACANESTRO

– MARIO ALESINI (Varese, 17 dicembre 1931 – Bologna, 2 agosto 2001). Ha partecipato al Torneo di Pallacanestro, classificandosi quarto, insieme con Antonio Calebotta, Achille Canna, Alessandro Gamba, Giovanni Gavagnin, Augusto Giomo, Gianfranco Lombardi, Gianfranco Pieri, Alessandro Riminucci, Gianfranco Sardagna, Gabriele Vianello, Paolo Vittori. Sotto la guida tecnica del prof. Carmine Nello Paratore, alla fine del Torneo, per punti segnati, Alesini risultò secondo soltanto a Lombardi : 129 contro 133. Alesini, a sedici anni, a Varese, era entrato a far parte della formazione locale. Il suo esordio in Serie A è datato 1950, con Varese terza, a fine campionato, dietro Borletti e Virtus. Proprio quest’ultima, nel 1953, gli propose un vantaggioso contratto per passare in bianconero, ma l’irrigidimento della società varesina, scavalcata nella trattativa, costrinse Alesini ad un anno di inattività. Poi, un intervento della Federazione sbloccò la situazione e il buon “Cranio” si trasferì sotto le Due Torri. Nel 1956, il primo e ultimo scudetto con le Vu nere. Complessivamente Alesini ha disputato 223 partite in maglia Virtus, mettendo a segno 2447 punti. Le ultime tre stagioni, fino al 1965, le interpreta nel ruolo di allenatore-giocatore. In Nazionale Alesini aveva fatto il suo esordio il 16 settembre 1952 (Italia-Iran 62-38), chiudendo la carriera azzurra giusto ai Giochi di Roma del 1960.
ALESINI E LA STORIA
Alle Olimpiadi di Roma l’Italia si piazza quarta nel torneo di basket, dietro gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il Brasile.
Dopo una iniziale batosta contro i “mostri” USA per 88 a 54 (42 a 17 dopo il primo tempo), la Nazionale ha superato l’Ungheria e il Giappone nel gruppo A della prima fase ed è giunta alle spalle del Brasile nel girone A della seconda fase, approdando alle finali.
Nel team azzurro militano numerosi atleti della Virtus Bologna: Mario Alesini (1931-2001), Antonio “Nino” Calebotta (1932-2002), il primo vero pivot nella storia della pallacanestro italiana, Achille Canna (1932- ), Augusto Giomo (1940-2016), Gianfranco Lombardi (1941- ), Gianfranco Sardagna (1935- ).
Al basket sarebbe bastato molto meno del bene augurante volo di una colomba per riuscire addirittura nell’impresa di conquistare una medaglia. La mancò per un solo canestro, e stavolta l’influsso benefico prese un’altra direzione, perché quel canestro – a quanto pare – la squadra azzurra lo aveva segnato, senza che però ne restasse traccia sul referto. Un mistero mai chiarito… Arrivò comunque un quarto posto del tutto inaspettato, peraltro in un torneo ad altissimo livello, che aveva costretto gli Stati Uniti a schierare la più forte selezione mai vista fino allora e a dare il meglio di sé per avere ancora una volta ragione degli avversari
L’artefice del miracolo cestistico italiano fu Carmine «Nello» Paratore, un insospettabile ometto che dietro quell’aria da maestro di scuola (con occhiali e baffetti), e dietro i suoi lunghi silenzi, nascondeva un gran temperamento. Veniva dall’Egitto, dove era nato, ma il nonno paterno era di Catania e nella comunità italiana del Cairo aveva maturato le sue esperienze, di uomo, di atleta e di allenatore di basket. Che prima o poi dovesse tornare nella patria dei suoi antenati era scritto nel destino: fece in tempo a lanciare le quotazioni della Nazionale egiziana (oro in un Europeo, quinto posto in un Mondiale, qualificazione alle Olimpiadi di Helsinki eliminando proprio gli azzurri) prima di mettersi, nel ’54, al nostro servizio.
Era stato il neo presidente della FIP Decio Scuri a volerlo. Gli aveva messo in mano il settore giovanile e la Nazionale femminile, ma ben presto lo aveva affiancato a McGregor come assistente per la Nazionale maggiore. Silenzi, lavoro e studio. Aveva seguito il suo «capo» anche nel viaggio a Melbourne, inviati entrambi dalla Federazione per un aggiornamento (in assenza della squadra): quando tornarono, al «rosso» americano venne dato il benservito, a lui l’incarico di sostituirlo.
Le Olimpiadi di Roma erano ancora lontane, ma il compito affidato a Paratore fu tutto in funzione di quella scadenza: di tempo, se voleva, ce n’era abbastanza a disposizione. A un metodico come lui, uno che sapeva costruirsi in palestra i suoi giocatori e le sue strategie, non c’era bisogno di offrire altro. Conosceva bene l’eredità lasciata da McGregor e cosa salvare di quella; il nuovo, invece, si mise a cercarlo girovagando per tutta l’Italia: era soprattutto alla ricerca di giovani che avessero doti fisiche e atletiche, perché la tecnica – sosteneva – si può sempre apprendere e migliorare. Su questi presupposti diede vita nell’estate del ’57 a un collegiale che segnò davvero una tappa fondamentale per l’evoluzione della nostra pallacanestro: un intero mese di ritiro a Fermo, tra le colline marchigiane affacciate sul mare, con ben 70 atleti convocati; allenamenti duri per tutti e sfide continue tra giocatori di uguali caratteristiche, per vedere chi – altra dote per lui indispensabile – avesse più spirito di sacrificio in campo.
In questo percorso di addestramento e di selezione durissima, ci si imbatté – quasi per caso – in due campionati europei, a Sofia nel ’57 e a Istanbul nel ’59. Arrivarono, rispettivamente, un undicesimo e un decimo posto, che potremmo definire deludenti se non sapessimo dello spirito con i quali erano stati affrontati quegli impegni. Intanto però dalla nidiata di Fermo erano emersi i primi giovani interessanti: Gavagnin, Vianello, Lombardi, Velluti. Era intento a provare il prof. Paratore, e a riprovare; il risultato non lo interessava. Ancora allenamenti, raduni; e incontri amichevoli, tanti. In tre anni fece disputare ai suoi 40 partite; le ultime addirittura in Sud America, nel corso di una intensissima tournée, dalla quale sarebbe stata scelta – lontano da occhi indiscreti – la squadra da presentare a Roma.
Alla fine venne filtrata una formazione che si presentava come il giusto compromesso tra il vecchio e il nuovo, tra esperienza e spregiudicatezza. Con un denominatore comune: la voglia di lottare, caratteristica che tutti dovevano avere in ugual misura. Era la formazione che, in qualche modo, rispecchiava l’indole del suo allenatore, il suo senso pratico. Paratore non era né eccessivamente scolastico, né eccessivamente fantasioso. Cercava di attuare una sua filosofia di gioco (il passing game in attacco, ad esempio, col «dai e vai» e il «dai e cambia»), ma ogni cosa – secondo lui – andava sempre adattato alle risorse che si avevano a disposizione. Ecco perché riusciva spesso a tirare fuori il massimo delle potenzialità da ogni giocatore.
Il Palazzetto dello Sport di Piazzale Flaminio, con la tipica struttura della volta: qui la Nazionale disputò le sue prime partite
C’era un solo reduce da una olimpiade: era Achille Canna, giovanissimo esordiente a Helsinki, ormai diventato un veterano. Non il più vecchio, comunque. Il «primato» spettava a Mario Alesini (29 anni) suo compagno nella Virtus Bologna, società dalla quale provenivano altri due giocatori che avevano già da tempo vestito la maglia azzurra: Gianfranco Sardagna e Nino Calebotta. Quest’ultimo era il lungo della squadra con i suoi 2 e 04, fisico gracilino, gambe da uccello, movimenti felpati; era stato già lanciato in Nazionale da Vittorio Tracuzzi, che – sia da compagno di squadra che da allenatore – lo aveva avuto al suo fianco nella Virtus (due scudetti vinti nel ’55 e nel ’56). In realtà, a scoprirlo ancora prima era stato lo stesso Paratore, proprio al Cairo, perché Calebotta, che era nato a Spalato ed era figlio di un funzionario del Ministero degli Esteri, seguiva il padre nei suoi continui trasferimenti per il mondo, Egitto compreso. Paratore aveva avuto appena il tempo di insegnargli i primi rudimenti del basket: fu un piacere per lui ritrovarselo con la maglia azzurra, pedina insostituibile sotto i tabelloni, soprattutto col suo micidiale tiro a uncino.
Ancora più nutrito era il blocco milanese dell’Olimpia, società dove da quattro anni era subentrato il marchio Simmenthal (ed erano stati altrettanti gli scudetti consecutivi, fino all’ultimo del ’60). Da là venivano Sandro Gamba, un combattente (spirito che si sarebbe portato dietro nella sua gloriosa carriera di allenatore); Sandro Riminucci, l’ex ragazzino prodigio di Pesaro, inimitabile nel suo gioco acrobatico; Gianfranco Pieri, grande visione di gioco la sua, e non soltanto per gli occhiali che portava; i più giovani Paolo Vittori (ottimo tiratore) e Augusto Giomo (play emergente). Assieme a questi ultimi due, Paratore portò in Nazionale anche Giovanni Gavagnin (l’altro lungo della squadra, ma arrivava appena a 1 e 99), Gianfranco «Dado» Lombardi e Nane Vianello, altre due bocche da fuoco dalla distanza.
Per scoprire il vero valore della squadra non restava che vederla in campo. Il debutto avvenne il 26 agosto, all’indomani della inaugurazione dei Giochi, al Palazzetto dello Sport del quartiere Flaminio. Sorteggio ingeneroso: bisognava misurarsi subito con i campioni degli Stati Uniti…
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