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RAGAZZI, CAVERNE E ABISSI

10 LUGLIO 2018
– Ma è mai possibile che ci si ostini a giudicare i dodici ragazzi tahilandesi , finiti per loro scelta in fondo ad una della meraviglie della terra , come degli incauti sopravvissuti, piuttosto che come degli straordinari protagonisti di un’avventura, magari estrema ed indimenticabile? Diciamocelo! Ma che cosa pensiamo che sia la metafora della vita, se non la ricerca istintiva e costante della verità, il desiderio di conoscere e di scoprire, di sfidare quanto nascosto nell’inconscio e nelle pieghe carsiche del nostro futuro, rappresentato non solo simbolicamente dalla natura e dalla nostra fisicità in continua evoluzione… Nel 1954, quando avevo tredici anni e cominciavano anche le mie pulsioni atletiche, andando a curiosare nella vetrina di una cartolibreria in via Silvio Pellico, in quel di Prati, a Roma, fui catturato dal titolo di un libro dello speleologo, entomologo, erpetologo bresciano Gian Maria Ghidini: “Uomini, caverne e abissi”, un classico oggi da collezione, che conservo gelosamente, come tutti i romanzi di salgariana creazione, con cui mi sono formato. Quella lettura educativa, intrisa di passione e di scienza, per me fu lo start up per una serie di esperienze al limite del rischio in tutte le cavità e gli ipogei romani, che fossero cave di pozzolana abbandonate o catacombe sterminate e labirintiche, quindi le gallerie delle miniere di alunite in quel di Allumiere, alla luce delle acetilene, sotto le monumentali faggete ed alla fine salvo per improbabili vie di fuga tra i silenzi, i chiaroscuri ed i selvaggi versi della foresta, come indimenticabili passaggi tra le porte più intime e segrete della mia adolescenza. Racconto questo, perché, pur consapevole del parapiglia mondiale mediatico suscitato dallo junior speleo-football team intrappolato con il coach nel sistema ipogeo di Tham Luang, confermo la mia opinione di sopravvissuto all’idea della vita come un’ ostinata ricerca della verità, dell’arca di una felicità e di un traguardo, impossibili da raggiungere, se non alla fine, in fondo a quel tunnel, che comunque tutti siamo portati a percorrere, in un modo o nell’altro, magari senza emozioni.
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