14 LUGLIO 2018
– Pietro Mennea, che non aveva avuto di certo vita facile nella prima fase della sua
carriera, ma poi aveva sostanzialmente vissuto da separato in casa per il resto del tempo, mai ammesso nel
Palazzo, se non dopo la dipartita per Borea, amava dire che il colore della pelle non conta, quanto la latitudine,
l’appartenenza al profondo sud del mondo, di cui lui si considerava esponente autorevole, tanto quanto Smith o
Bolt… Dunque, la nazionalità o il colore della pelle, il censo, piuttosto che la cultura, la fame di riscatto sociale
attraverso un’attività che ti possa liberare dai vincoli di natura formale, che l’umanità ha strutturato e
sovrastrutturato nel corso dei millenni in cui ha affinato, con il concetto di civiltà, ogni forma di divisione, salvo
inventare la formula olimpica, che supera molte delle barriere, ma non tutte, anzi esalta l’appartenenza per
nazioni, con tanto di medagliere basato sulla meritocrazia aurea, gli inni nazionali, le bandiere, le sfilate, il
mostrare i muscoli, il vincere di più negli sport omologhi alle nazioni più ricche, che godono a tutt’oggi di
condizioni di privilegio, di vie facilitate al podio, come nel caso della scherma, dell’equitazione o dello stesso
ciclismo, piuttosto che nel nuoto, nella ginnastica, nel tennis o magari nel golf, di prossimo ingresso nel
programma. Diversamente, nell’atletica, anche i paesi più poveri e con più “fame” hanno possibilità di accesso,
perché bastano savane e altipiani per correre… Paradossalmente, lo smottamento di intere collettività nei vari
angoli del Pianeta ed in particolare nel continente africano, le antiche tratte degli schiavi, le guerre coloniali e le
recenti “pelose” espropriazioni di territori con banali concause di guerra – operazioni di carattere palesemente
economico mimetizzate con motivazioni etniche, religiose, ma in realtà pur sempre economiche – hanno
determinato in tempi lontani e recenti condizioni impensabili e completamente diverse per i paesi a caccia di
medaglie, come anche il nostro, ovvero quelle di ricevere nuova linfa attraverso le bibliche migrazioni in essere,
con tutti i risvolti negativi e positivi del caso, ovvero quelli sociali, politici e magari sportivi. Questo è, per quel
che mi riguarda, il ragionamento possibile sulla base del risultato esemplificativo ottenuto dalla staffetta 4×400
femminile “azzurra” ai Giochi del Mediterraneo, in Tarragona, occasione in cui l’italianità era formale, piuttosto
che sostanziale, viste le origini delle famiglie ed i meccanismi di acquisizione all’anagrafe e visto infine anche il
clamore mediatico suscitato, ovviamente strumentale. A questo punto, dovremmo però ragionare e convenire se
abbia senso continuare a rincorrere le medaglie, piuttosto che perseguire l’obiettivo di una società civile più sana
sotto il profilo educativo, mentale, fisico. I problemi dell’accoglienza esistono e non per nostra scelta, purtroppo,
per una visione del tutto inadeguata dell’Europa comunitaria. Se prevale quella dei furbi e dei prepotenti, quella
monetaria, quella nazionalista, sarà difficile arrivare alla condizione in cui non contino più le medaglie e non ci si
meravigli più che a vincerle per Inghilterra, Francia, Olanda e magari l’Italia siano atleti di etnie e colori diversi,
con storie e motivazioni diverse. Infine, il vero problema, di cui sembra non importi niente a nessuno, è che
stanno andando in malora i Giochi del Mediterraneo, giunti al capolinea proprio quando avrebbero potuto avere
un senso, un ruolo strategico rispetto alle disperate esigenze di riconciliazione, che si sono generate con gli eventi
disastrosi degli ultimi anni. Amo pensare che la riconciliazione dell’area Euro-mediterranea possa ancora
avvenire, anche grazie allo straordinario patrimonio di relazioni umane, che si sono generate tra i 23 paesi
coinvolti nella settantenne storia dei Giochi e che potrebbe agevolare non poco la ripresa di sinergie salvifiche,
davvero basate su valori e interessi condivisibili, che potrebbero andare ben oltre il “quantitative easing” delle
medaglie.