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“Nazione” non è una brutta parola

“Nazione” non è una brutta parola. Si dice che il nazionalismo sia una brutta bestia dalla quale occorre tenere le distanze, altrimenti ti divora. Non metto in dubbio che tale affermazione sia in gran parte giustificata e, del resto, gli esempi atti a suffragarla si trovano in abbondanza nella storia. E tuttavia c’è un limite a tutto, e in Italia quel limite è già stato superato da un pezzo. Anzi, si ha spesso l’impressione di essere giunti al punto di non ritorno.

Intendo dire, con questo, che tra il nazionalismo becero e l’auto-annientamento che causa la perdita di ogni stima di sé deve pur esserci un terreno mediano nel quale collocarsi, se non altro per dimostrare agli altri che esistiamo.

Sarà anche vero che il fascismo produsse una tale sbornia di nazionalismo da lasciare gli italiani ubriachi per sempre, e pronti a negare se stessi pur di non correre più un simile rischio. Ma – come prima dicevo – si è passato ogni limite. Soltanto parlare di possibili interventi armati all’estero ingenera inenarrabili mal di pancia. Prima li si ipotizza e poi si fa subito marcia indietro, con un vago senso di smarrimento per aver osato procedere verso un baratro inesistente, che noi stessi abbiamo creato dopo decenni di retorica pacifista.

C’è pure un altro mantra che ci tormenta sin dalle origini, e in particolare dopo la disfatta subita nel secondo conflitto mondiale. Siamo degli straccioni, magari geniali (a volte), ma pur sempre straccioni. Lassù nel Nord, invece, vivono popoli ordinati e civili, che insegnano ai giovani a non buttare i mozziconi di sigaretta per terra e a rispettare l’ambiente.

Mica vero, come sa chiunque abbia avuto modo di viaggiare parecchio. Le nazioni del Nord hanno indubbiamente degli aspetti positivi ma, tant’è, gli italiani che vi si recano sentono sempre un’irrefrenabile voglia di tornare a casa. Vale addirittura per i docenti universitari che, attratti dagli atenei stranieri, tentano poi in maggioranza di essere assunti da uno dei nostri per continuarvi la loro carriera. Segno che la comparazione reale – e non quella delle classifiche per lo più compilate in Cina – induce a ritenere che, tutto sommato, da noi così male non si sta.

Il complesso di colpa degli italiani, già presente negli anni della formazione della nazione, è stato ingigantito nei decenni successivi al 1945 da una forma mentis che si può giustamente definire “della resa”, da una cultura del “politicamente corretto” che ha predicato ad alta voce una nostra presunta inferiorità nei confronti di popoli ai quali non dobbiamo invidiare alcunché.

Riprendiamoci quindi la nostra storia, per favore, e smettiamo di insegnare alle nuove generazioni che gli altri sono in ogni caso e comunque migliori di noi.

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