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L’ORO IN MARCIA

20 AGOSTO 2016
– Questa notte ho visto brillare per l’ultima volta la stella fulgente dell’atletica, Usain Bolt: in quella sua ultima rapida possente volata non c’era soltanto la differenza con i pur illustri avversari, ma, in quella conclusiva frazione di staffetta, l’abisso simbolico tra il volo della Nike giustamente alata e lo svolazzo di Mefistofele. Nessuno si offenda, ma credo ci sia bisogno di rimettere ordine nel sistema sport, per avere certezza sui valori di riferimento, diversamente nulla sarà più come prima. Per questo, per trovare un termine di paragone con uno dei cardini naturali dell’atletica, regina olimpica, la marcia, voglio chiamare in causa Ugo Frigerio, quale esempio fulgido, per capire come proprio dalla marcia debba ripartire l’atletica azzurra: lui, Ugo, è passato alla storia per essere salito sul podio olimpico ben quattro volte in tre olimpiadi nell’arco di sedici anni, soffrendo dell’esclusione della marcia dal programma di Amsterdam. Frigerio tra Anversa (1920) Parigi (1924) e Los Angeles (1932) spaziò dai tremila alla cinquanta chilometri, passando per i diecimila e incassando tre ori e un bronzo. Voglio sottolineare anche che, se il movimento più naturale dell’uomo è il camminare, colui che lo interpretava stilisticamente in modo divino era Giuseppe Dordoni, trionfatore ad Helsinki nel 1952. Credo che la storia della marcia italiana a partire da Francesco Altimani, giovane tipografo de La Gazzetta dello Sport, bronzo a Stoccolma nel 1912, sia stata complessivamente troppo importante per non essere considerata come il giusto elemento di ripartenza, dopo quanto accaduto sul campo e fuori …
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