Ecco, l’ennesima prova generale del Mose (modulo sperimentale elettromeccanico – composto da quattro barriere, con 78 paratoie) alla presenza del “Premier” Giuseppe Conte, nella speranza di andare in scena il prossimo autunno, in previsione di un nuovo catastrofico impatto con acqua alta a Venezia, ci deve far riflettere su una questione nodale, rispetto al nostro passato e purtroppo ancora nella prospettiva di un futuro dalle ali tarpate. Sì, le paratie in parte anchilosate della diga mobile, leonardesca difesa della gloriosa Repubblica, quel miracolo dell’italico ingegno, ideato sin dal 1984, sinora vanificato, nella biblica attesa che inchieste e processi facessero il loro “filippico” decorso, rappresenta in modo emblematico la nostra astrusa realtà e la nostra vocazione al martirio. Diciamo che fa il paio con la situazione creatasi con il nuovo Ponte Piano sul Polcevera a Genova, altra opera mirabolante a rischio d’imbalsamazione, in attesa che i lacci e lacciuoli del “vorrei ma non posso” vengano rimossi. In realtà, il problema è a monte, è concettuale o meglio ancora di onestà intellettuale, quella che dovrebbe fare la differenza per chi governa, posto che accetti il rischio di pagare per il coraggio di esercitare, senza remore. In poche parole, occorre che ci si liberi della forma, quando diviene sostanza negativa, come nel caso di ogni interferenza che blocchi l’esecuzione di opere e la gestione di servizi di primario interesse per la collettività, salvo condanne a tempo debito, con tutte le conseguenze per i responsabili d’illeciti e negligenze. Peraltro, nel ragionevole dubbio tra innocenza e colpevolezza ci possono passare, come sappiamo, anni ed anni di rimpalli tra vari gradi e sedi di giudizio, che fanno, in questi casi, della “cura” una vera iattura a conti fatti, come appunto nel caso del MOSE arrugginito e del Leone di Venezia ammalorato, imprigionato nella tristezza della nostra stupidità.