20 settembre 2018
La tragedia della madre infanticida, detenuta a Rebibbia, mi lascia attonito, sgomento, ma non senza un barlume di spiegazione. Nel marzo del 2014 ero stato a contatto con quel mondo rattristato dalla restrizione e dalla costrizione per qualche ora, il tempo di una toccata e fuga per iniziativa di Patrizia Mirigliani, con Miss Italia ed una associazione di promozione dell’artigianato sartoriale. Tanto pensavo mi fosse bastato per averne una impressione profonda, ma fugace, tanto quanto lo sguardo dall’auto in corsa lungo le periferie romane infarcite da donne schiave, sbattute sulla strada dai loro padroni. Insomma, come il resto degli italiani, ho corso il rischio di girarmi dall’altra parte, posto che il sistema di fatto accetta, consente e non corregge fenomeni gravissimi e palesi di criminalità e disagio, piuttosto che la manifesta assenza di adeguata prevenzione o distratta attenzione nei confronti delle vittime e dei loro carnefici. Insomma, non è che le donne nel tritacarne del caporalato, dalla Sicilia e la Calabria, al Pontino, passando per la Terra di Lavoro, siano calate in un inferno meno rovente, ma ce ne accorgiamo soltanto di fronte all’eclatanza delle morti, peraltro annunciate. Ecco, la mia impressione è che nella filosofia dello “scarica barile” e della cavillosità delle leggi e dei regolamenti, alla fine si giunga ad un risultato orribile, ma informalmente accettato, quello che si possa scendere nei gironi dell’Inferno, non immaginario, come quello concepito dal sommo Dante, ma in quello reale consentito nel Bel Paese, purtroppo terra di genialità, ma anche di assurde sregolatezze. Purtroppo, le donne sono le vittime principali di questa situazione di permanente latitanza dell’onestà intellettuale, predestinate da una società civile ancora in buona parte incatenata dai pregiudizi, da ordinamenti vecchi e contradditori…