Visioni da anni cinquanta/sessanta, “cuando el caliente sol” spingeva l’èlite al sofisticato Kursal – creato da Lapadula e Nervi – mentre la massa si accalcava sulla playa del “Battistini”, sotto il Pontile di Ostia, destinazione agognata delle “famiglie passa guai” sin dai tempi del Duce, tra migliaia e migliaia di bagnanti per caso. Il Covid 19 non era nemmeno immaginabile e l’Italia correva, correva carica d’energia, ambiziosa, convinta delle sue prerogative, galvanizzata dal successo universalmente riconosciuto della diciassettesima edizione dei Giochi Olimpici moderni, organizzati nella rinascente Roma, appena tredici anni dopo dalla Costituzione repubblicana, come trapasso tra l’ante e il post della catastrofica Seconda Guerra Mondiale. Dunque, io c’ero e come tanti altri ragazzi, di allora e di adesso, fui beneficiato, reso davvero inossidabile, da quella esperienza ad oggi irripetuta e probabilmente irripetibile nel breve e nel medio termine di un’epoca, che si va rivelando acida ed aggressiva, dominata dall’istintuale sentimento della sopravvivenza. Io sono nato collezionista e so che il pezzo unico non ha prezzo. Infatti, l’unicità di Roma Olimpica, non può che farci apprezzare in modo assoluto un’esperienza che è andata ben al di là del fatto sportivo, dell’evento in se, ma ha contraddistinto, confermandolo, il ruolo innato dell’Urbe, fondata da Romolo sul Campidoglio, quello di Città Olimpica a prescindere, di luogo speculare in cui i miti, la cultura, le tradizioni e le motivazioni nobili della riconciliazione della Oikoumene, della “casa comune” dei popoli mediterranei, hanno trovato accoglienza e perpetuato lo spirito, nella condivisione planetaria, almeno da un paio di millenni. Adesso che siamo giusto ad un mese dalla sessantesima ricorrenza di quella che fu definita “La Grande Olimpiade”, non possiamo evitare una debita riflessione. Come era, come sarebbe o dovrebbe essere oggi Roma Olimpica? Certo non ammalorata, presidiata ai semafori dai lavavetri in fuga dagli hoptspot, con il centro orfano del turismo, popolato da alieni e forze dell’ordine, arredato da verdi rabbuffi inselvatichiti, agghindato con migliaia di monopattini in attesa di Godot. Roma Olimpica noi la immaginiamo, tanto quanto il Bel Paese, nella sua forma migliore, con lo sfarzo travolgente con cui amiamo lasciarci andare nei giorni migliori della nostra vita, onusti del lusso che trasuda naturale dal profondo del nostro humus, che erompe dalla nostra spavalderia. D’altra parte, chi viene in Italia, a Roma, viene inseguendo un sogno, quello della Dolce Vita, delle Vacanze Romane, di Bernini e del suo rugantino artifizio barocco, tra lo Stadio di Domiziano e quello di Nerone, da Piazza Navona a San Pietro, delle immaginifiche coordinate urbanistiche di Sisto V, da Piazza del Popolo al Colosseo. Le stesse emozioni che valsero a convertire Goethe, Andersen e Respighi ad un rapporto con il particolare clima della festa, quello che ne sublimò il talento creativo. Le stesse emozioni che vorremmo coinvolgessero la sensibilità di chi dovrebbe avere a cuore l’italico futuro. Cosa fare, vi chiederete, posto che negli ultimi dieci anni ci siamo tarpati le ali prima a beneficio di Tokio e poi di Parigi e Los Angeles? Beh, diamoci una regolata con chi ha mostrato senza ravvedimenti di essere miope, sordo e per certi versi anche muto. Rapportiamoci tra coloro che sono portatori del testimone essenziale, quello dell’antica saggezza e della novella resilienza. Raccontiamoci intanto come eravamo e prendiamo spunto per quel che vorremmo divenire, quali naturali destinatari di un irrinunciabile compito, appunto quello salvifico dei rifondatori. Il ruolo “olimpico” di Roma non è mai venuto meno ed avremo modo di riaffermarlo, non soltanto nello spirito e ben oltre le piste, i campi, le pedane, i podi. Il primo appuntamento, ineluttabile, cadrà giusto tra il 25 agosto e l’ 11 settembre, poi si all’allargherà l’orizzonte oltre ogni limite, oltre i monti ed otre i mari, con un nuovo formidabile richiamo, quello del rinascente olimpismo romano.