30 GIUGNO 2016
Carlo Pedersoli, spirato ottantaseienne con un “Grazie!” tra le braccia dei suoi familiari, proprio mentre l’Italia del calcio batteva la Spagna,
aveva tutti requisiti per essere maggiormente celebrato e premiato in vita. Considerato dalla rivista Time l’attore italiano più popolare nel mondo, nel 1999, simbolo bonario di chi pensa che il bene possa avere ragione del male a suon di sganassoni, era l’esempio di come un superdodato da madre natura, di fisico e cervello, possa riuscire nello sport, come nella vita civile. Pluricampione italiano, azzurro, oro dei Mediterranei, olimpionico a Helsinki, Melbourne e Roma, aveva finito per cambiare il nome in Bud e il cognome in Spencer per dar vita ad uno e più simpatici personaggi in celluloide. Inversamente esuberante nella vita privata, Carlo aveva ricevuto istituzionalmente molto meno di quanto avrebbe meritato con il suo esempio di atleta, di lavoratore, di creativo, di interprete. Io l’avevo incontrato al Vicariato di Roma, dove si parlava di etica e sport, nel 2001 e lo avevo trovato estremamente misurato nelle valutazioni del disagio giovanile, in ogni caso preoccupato dalla carenza di opportunità educative. Lui si dichiarava disponibile per fare la sua parte, purchè ce ne fossero le condizioni. Carlo-Bud, in ogni caso, la sua parte l’ha fatta, ma purtroppo non proprio tutto quello che avrebbe voluto…