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L’editoriale del Direttore: PRIMO NEBIOLO E IL GOLD DEL GALA

PRIMO NEBIOLO E IL GOLD DEL GALA Il 17 di settembre si tornerà allo Stadio Olimpico con l’atletica, per il Goden Gala, straordinario appuntamento frutto della genialità di Primo Nebiolo, artefice con Samarach peraltro della ricomposizione dell’unità olimpica, partendo dalle criticità di Mosca e Los Angeles (1980 e 1984) per arrivare ai Mondiali di Roma 1987 e poi ai Giochi di Seul (1988) e Barcellona (1992). Augusto Frasca, indiscusso numero uno tra i testimoni attivi della comunicazione sportiva, riapre un ragionamento non peregrino intorno alla figura di Primo Nebiolo e della opalescenza i cui è stata ridotta la sua eredità. Un soprassalto di onestà intellettuale potrebbe essere di vantaggio per il sistema sportivo italiano e internazionale. A tale riguardo, ecco cosa ha scritto ieri proprio Augusto Frasca: “Il Golden Gala

Unico in controtendenza, Giulio Andreotti. Da Francesco Cossiga a palazzo Chigi, fino a Lelio Lagorio nella delega ministeriale di vigilante sullo sport, tutti schierati a favore del boicottaggio. Dal Foro Italico, sulle prime pagine, Carraro aveva tuonato: tutti o nessuno. Parole al vento, e marcia indietro, con i militari consegnati in caserma. Assente come altri da Mosca, il Canada dette fuoco a tredici milioni di francobolli stampati per la partecipazione olimpica. All’inizio del mese, colto in flagranza di reato con altri fabbricanti di falsi sui campi di calcio, Paolo Rossi era stato inviato al confino per un paio di stagioni. Il 3 luglio, all’Arena, Edwin Moses aveva suggerito all’amministrazione milanese di aggiungere su una lastra di marmo la cifra del tredicesimo primato mondiale realizzato nell’impianto napoleonico di Luigi Canonica. Quanto successe a Mosca è scritto nei libri, e conservato nelle memorie. Enzo Frantone, italiano, omosessuale, fu arrestato dinanzi al sepolcro di Lenin per un tentativo di spogliarello: fu impacchettato quando era ancora in mutande e rispedito al mittente con posta prioritaria. Il catalano Juan Antonio Samaranch Torellò succedeva a Michael Morris III barone Killanin, appassionato di giornalismo, produttore di pellicole cinematografiche tra cui The Quiet Man, regista John Ford, tributo d’amore all’Irlanda, protagonisti un immutabile John Wayne, una luminosa Maureen O’Hara e inimitabili Victor McLagen e Barry Fitzgerald. Rifugiatosi nei bagni del pulvinare nei momenti decisivi della finale del salto in alto, Primo Nebiolo ricevette verbo della vittoria di Sara Simeoni mentre si allacciava maldestramente i pantaloni. A darglielo, viso da mattone non dissimile dal suo omonimo Breznev, Leonid Khomenkov, presidente della Federazione dell’Unione delle Repubbliche sovietiche. Con la giacca rossa di membro del Council della IAAF, Nebiolo aveva già vissuto in diretta dal campo, nella giornata d’esordio, l’orgasmo per la conclusione traumaticamente positiva della gara di Maurizio Damilano. Quando Mennea tagliò il traguardo, insieme con la felicità per una vittoria che assieme a quelle di Sara e di Maurizio avrebbe pesato non poco sull’economia dell’atletica italiana anche nei confronti dell’inaffidabile fraternità di rapporti con il Foro Italico, Nebiolo realizzò immediatamente come quelle vittorie avrebbero garantito il successo di un’iniziativa nata nella sua testa fin dall’eccezionale successo torinese della finale di Coppa Europa della precedente stagione ed inserita all’inizio dell’anno olimpico nel calendario internazionale. A quel punto, il Golden Gala era cosa fatta. Per parte sovietica, fondamentale per la ricucitura mondiale, Khomenkov ne aveva fornito personalmente conferma durante una gita sulla Moscòva: il Kremlino aveva dato disco verde per la trasferta romana. La semina risaliva negli anni, non ultime le Universiadi del 1973 trasferite di peso oltre cortina dal dirigente italiano malgrado vistose avversità internazionali. Fu così che il primo agosto, ultimo giorno di gare, mentre a qualche migliaio di chilometri la truppa organizzativa rimasta a Roma viveva febbrili le ultime ore di attesa, la stampa italiana coinvolta in atletica, insieme con i responsabili delle cinque Agenzie internazionali accreditate dal Cio e Robert Parienté dell’Équipe, venne invitata da Nebiolo nel ristorante principale dello stadio Lenin. Risposero, da un appunto del giorno: Aquari, Beha, Cannavò, F. Chiocci, F. Colombo, Crosa, Cucci, D’Asnasch, M. De Luca, Dietrich, Eleni, G. Evangelisti, Ferretti, Fumarola, Gherarducci, Giordani, Gregori, R. Icardi, Lago, Lòriga, Melidoni, Merlo padre e figlio, G. Moretti, Motta, Musumeci, Perricone, Pirona, Pistamiglio, Ranieri, Reineri, Romeo, Rosi, G. Signori, Trifari. Varia ed esotica fu la colazione. Ma la sorpresa giunse in finale di pasto con il bicchiere di Moskovskaya: l’elenco degli iscritti al Golden Gala, aperto da trenta medaglie olimpiche, tutti compresi, americani e sovietici. Il 5 agosto, lo Stadio Olimpico venne assaltato, le curve, inizialmente chiuse, vennero spalancate sotto la pressione del pubblico, i bagarini furono presi in contropiede e i cinquantaquattromila posti a sedere furono esauriti. Michele Santantonio, generale a riposo, irreprensibile cerimoniere, ebbe vita difficile nel gestire una tribuna autorità assediata come una trincea bellica. Si celebrò con la sfilata delle rappresentative. Con l’Inno nazionale. Con l’Alzabandiera. Con il silenzio in memoria dei settantasei massacrati da mani infami tre giorni avanti alla stazione di Bologna. Al termine della giornata si fece l’appello e si assegnarono i meriti di ognuno. Realizzando come non erano stati sufficienti buon vicinato, capacità ed estro per portare a termine l’impresa. Era stato necessario qualcosa di più. E quel qualcosa era stato trovato da tempo nell’uomo che nella stagione successiva avrebbe inventato una nona corsia per l’edizione italiana della Coppa del Mondo. Dalle ore in cui, con le sue qualità e i suoi difetti, il dirigente torinese chiuse ufficialmente la sua traiettoria al vertice dell’atletica nazionale, nessuno, tra i sopravvenuti nelle varietà di stagioni, compresa la metastorica dedica finale, frutto di un’imbarazzante sindrome beatificatoria, ebbe intelligenza, pudore o semplice rispetto filologico per onorare quel lascito e dare a Nebiolo quanto era ed è di Primo Nebiolo.

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