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Editoriale

Il problema dell’astensionismo

Il problema dell’astensionismo. Il tema è inevitabilmente destinato a suscitare polemiche a destra e a manca, e ad attirare rimbrotti e accuse sulla testa di chi lo solleva. E tuttavia va affrontato, se non altro per amore dell’onestà e della franchezza. Sto parlando dell’astensionismo, il principale tormentone (anche se non l’unico) delle elezioni italiane da parecchio tempo.

Il cosiddetto “partito degli astensionisti” è cresciuto a dismisura in pratica ovunque, tanto da indurre parecchi organi di stampa a definire questo “non partito” come il vero vincitore delle ultime tornate elettorali.

Non solo. Quotidiani, mass media, social network e i soliti intellettuali “impegnati” insistono sulla tesi che il voto è un “dovere morale”, ragion per cui chi rinuncia a esercitarlo è, ipso facto, un reprobo indegno di vivere in un Paese democratico.

La mia opinione è diversa, e cerco di spiegare perché. Nelle democrazie liberali mature, i cui esempi tipici sono Stati Uniti d’America e Regno Unito, l’astensionismo è un fenomeno assai diffuso e non suscita le polemiche che, invece, scoppiano puntualmente da noi.

Nelle nazioni anzidette si ritiene, giustamente, che il voto non sia un dovere bensì un diritto che, in quanto tale, può essere esercitato o meno, senza per questo mettere sul banco degli imputati tutti coloro che vi rinunciano. Nessun dramma se il numero degli astenuti supera quello dei votanti. In America tale situazione si è verificata più volte, senza suscitare pianti e grida di dolore.

Il sistema funziona comunque, anche se gran parte dell’elettorato non si reca alle urne, e viene riconosciuto ai cittadini il diritto di disinteressarsi di ciò che fanno i partiti, andando in vacanza o dedicandosi al proprio hobby preferito mentre si svolgono le operazioni elettorali.

Si tratta, a mio avviso, di un segno di civiltà e maturità. Il voto è un obbligo solo nei regimi monopartitici e dittatoriali. In Italia ne abbiamo avuto un buon esempio nell’epoca fascista, quando non votare costituiva un reato e chi lo faceva era immancabilmente inserito nelle liste nere delle questure.

Lo stesso accade ora, per menzionare un solo esempio, nella Repubblica Popolare Cinese, dove a chi non vota viene in modo automatico attribuita la qualifica di persona che non approva la politica dell’unico partito esistente, con tutte le conseguenze spiacevoli del caso.

In Italia il voto di massa, che a volte raggiungeva percentuali bulgare dell’80 o 90%, era comune nel periodo delle formazioni politiche ideologiche, alle quali si dava il consenso per atto di fede, indipendentemente dalle candidature in campo.

Tale periodo è terminato, grosso modo, con la scomparsa dell’Unione Sovietica e con la progressiva “laicizzazione” del vecchio PCI. Laicizzazione che, in ogni caso, non è ancora conclusa. Il fatto è che viviamo in un’epoca del tutto diversa, nella quale gli atti di fede non sono più di moda e conta più il “fare” delle dichiarazioni ideologiche. Tanti non hanno ancora metabolizzato il cambiamento, come ben si nota leggendo le dichiarazioni post-elettorali.

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Michele Marsonet

Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova

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