Solo da poco tempo stiamo cominciando a percepire che tutti gli oceani del mondo andrebbero considerati quasi come un unico organismo vivente. Le correlazioni fra la fisica, la chimica e la biologia che si compenetrano, nel giusto lasso di tempo, fra questi particolari ecosistemi sono infatti strettissime. Ne sono testimonianza la presenza di inquinanti quali i metalli pesanti (mercurio, cromo, cadmio, piombo, ecc.), il PCB (policlorobifenili), il DDT, e tanto altro ancora anche negli animali che vivono relegati ai poli del pianeta (soprattutto mammiferi marini, pinguini e pesci) e quindi teoricamente lontanissimi dalle fonti d’inquinamento umane. Evidentemente la nostra concezione “produttiva” e fortemente competitiva del nostro sistema di vita tiene in poco o in nessun conto la dimensione “finita” delle risorse del pianeta. Se solo negli anni “50 del secolo scorso eravamo 2,5 miliardi di persone ed oggi abbiamo quasi triplicato la nostra presenza sul pianeta, ed al contempo abbiamo esageratamente aumentato le esigenze per un modello di benessere insostenibile, è evidente che lo sfruttamento delle risorse, anche di quelle tecnicamente “rinnovabili”, si scontra con una domanda ben più elevata di quello che il pianeta può offrire. Ne costituisce un esempio lampante lo sfruttamento delle risorse della pesca. Il nostro approvvigionamento ittico è ancora largamente basato sulle catture in natura. Se le nostre esigenze alimentari di prodotti ittici sono di circa 150 milioni di tonnellate l’anno per un consumo pro-capite di circa 19 Kg, la produzione di pesce allevato è di “soli” 66 milioni di tonnellate (dati FAO 2012). Ma, come se non bastasse, molto prodotto pescato dai pescherecci d’altura viene rigettato in mare perché di scarso valore commerciale. Si tratta di uno dei tanti casi in cui Economia ed Ecologia collidono a danno come sempre della seconda. Del resto che le risorse del pianeta non siano illimitate lo sappiamo da tempo, già nel 1972 infatti il Club di Roma portò alla pubblicazione de “I limiti dello sviluppo”, un “testo sacro” composto da economisti di tutto il mondo e tradotto in tutte le lingue più parlate del pianeta. In questo lavoro si preconizzò con largo anticipo che le crescite incontrollate, sia demografica che di sempre nuovi bisogni, non potevano essere soddisfatte da un pianeta dalle risorse limitate. Eppure ancora non ci accorgiamo che, mentre noi aumentiamo irresponsabilmente di numero ed utilizziamo con poche regole quanto la Terra possiede, tutti gli altri viventi del pianeta diminuiscono sensibilmente, ad eccezione di poche specie opportuniste come ad esempio topi, corvi, gabbiani e scarafaggi: i nostri più probabili compagni di viaggio nel futuro dell’umanità.
Eppure le capacità di recupero degli ecosistemi è straordinaria e forse l’ecosistema marino, grazie alla sua vastità, ha dimostrato più di altri di avere la capacità di “digerire” i nostri rifiuti e le nostre intemperanze produttive e noi continuiamo ad utilizzare tutti i mari del mondo come la più grande ed incontrollata discarica dell’umanità.
Il mare è fatalmente il punto più in basso rispetto alle terre emerse e questo ne fa l’ideale ed ultimo punto di arrivo di ogni rifiuto, quando non si organizzano veri e propri trasporti per scaricarli in mare considerato che noi stessi non sappiamo o non vogliamo gestirli. Nell’ottica produttiva umana, che praticamente vive solo il presente o al massimo l’immediato futuro, trasformiamo quindi il mare in un comodo “tappeto” sotto cui nascondere la nostra polvere. Ma l’eccesso di sfruttamento da pesca e l’inquinamento stanno formando insieme una morsa nella quale anche un flessibilissimo ecosistema come quello marino rischia di essere stritolato. L’epoca attuale, cominciata con l’inizio del nuovo millennio, può essere, deve essere invece l’epoca del recupero, l’epoca di nuove ideologie in cui passare da un concetto economico basato sulla “massima concorrenza possibile nel massimo sfruttamento possibile” a quello fondato sulle “massime sinergie possibili”, sul recupero di tutto quello che siamo soliti usare e poi buttare, e attingendo dalle risorse del pianeta solo quel poco che non riusciamo a recuperare in altro modo. Dobbiamo avere il coraggio di rendere antieconomico il prelievo delle risorse del pianeta, dobbiamo avere il coraggio di controllare e di reprimere gli abusi. Anche il prelievo delle risorse ittiche deve sottostare a regole più rigorose in cui il prodotto naturale e non allevato deve essere considerato anche per il suo “valore biologico” a cui dovrà coincidere un più giusto valore commerciale. La pesca non potrà e non dovrà mai essere abolita perché essa stessa fa profondamente parte della cultura dell’uomo, ma dovrà continuare ad essere esercitata in una maniera realmente compatibile. Non si tratta però solo di dover salvare un’importante attività economica che risale al neolitico come se fosse un prezioso reperto archeologico, ma di dimostrare a noi stessi di essere ancora in grado, con intelligenza e lungimiranza, di continuare un’attività antica in armonia con i cicli e le potenzialità delle risorse naturali. Questo ci consentirà di ricordare le nostre origini, di non dimenticare cosa eravamo e quale equilibrio avevamo e possiamo ancora avere con il pianeta. Dobbiamo avere il coraggio di gettare le basi, realmente e per sempre, di una nuova (e forse la sola) concezione filosofica che ci consentirà di vivere ancora a lungo come genere umano facendo finalmente coincidere, come è sempre stato in Natura, l’Economia con l’Ecologia.
A cura di Roberto Minervini