L’arte della recitazione è argomento prettamente novecentesco; in precedenza ne parlarono in pochi, tra cui Diderot in pieno Illuminismo settecentesco.
Cercando di tracciare una sorta di mappa degli studi attorici, emergono due fondamentali scuole di pensiero: quella di Stanislavskij – Čechov, e in parte di Mejerchol’d e Grotowski, e quella contraddistinta dalla razionalità del modello ideale di Diderot, contrarissimo ad ogni sorta di immedesimazione.
Stanislavskij volle dare basi razionali all’apprendimento dell’Arte dell’attore, con un approccio decisamente diverso da Diderot, ovvero basato sulla razionalizzazione dell’emotività e sulla ricerca dell’emozione partendo dalle esperienze passate dell’attore stesso, allo scopo di raggiungere la piena immedesimazione nel personaggio.
Stanislavskij faceva parte di un’epoca, quella di Copeau, Mejerchol’d, Artaud e Craig, in cui “era l’attore il centro della sfida portata dai padri fondatori del teatro del Novecento. All’attore Stanislavskij chiese di essere ‘credibile’ nelle azioni, per i processi interiori che la motivano, piuttosto che ‘leggibile’ nei segni fisici. Di questo salto, dal segno al processo, fece la sua rivoluzione teatrale. Non più rappresentare, ma rivivere”.[1] Un’epopea teatrale, quella di Stanislavskij, che segnò anche la nascita della regia, che permetteva una definitiva transizione del teatro dall’intrattenimento all’Arte. Una svolta di estrema importanza, che fu il frutto dell’incontro tra tutti i Padri Fondatori della regia teatrale: “In tutto il periodo della nascita della regia c’è una costante: la forza d’una potente calamita che agisce indipendente dalle distanze geografiche, d’ambiente o di formazione. Si incontrano o si cercano Craig e Stanislavskij, Stanislavskij e Copeau, Copeau e Craig, Copeau e Appia, Appia e Craig, Mejerchol’d e Stanislavskij, Mejerchol’d e Craig, Piscator e Mejerchol’d, Granovskij e Reinhard… Leggono gli uni gli scritti degli altri, subiscono la reciproca influenza, si cercano, discutono, spesso rendono pubblici i loro dialoghi”[2].
Nella creazione del famoso Metodo, il maestro russo fu sicuramente influenzato dalla nascente psicologia freudiana e da altri scienziati. “Dietro la scienza dell’attore di Stanislavskij, ci sono anche Sigmund Freud (1856-1939), Théodule Ribot (1839-1916) e William James (1842-1910), scienziati dell’anima. A Freud può essere fatta risalire la nozione di subconscio come sede della creatività e della verità, inaccessibile all’intervento diretto di volontà e ragione; a Ribot l’acquisizione che non si dà sentimento senza una corrispondente manifestazione fisica, e che dunque il lavoro per l’espressione è indissociabile da un lavoro per la ‘reviviscenza’; a James la scoperta, nell’ultima stagione di vita, che l’espressione giusta, più che manifestarlo, è il sentimento che vi si associa, e che dunque la ricerca della credibilità può partire dall’azione fisica. Solo Ribot è un riferimento dichiarato”[3].
Il Metodo di Stanislavskij, ricordiamolo, non era atto ad una forzatura dei sentimenti, come spesso era e ancora è banalizzato, “ma solo a curare le condizioni affinché spontaneamente il sentimento si manifestasse”[4]. Stanislavskij, oltre ad aver contribuito agli studi teatrali in generale, fu anche un grande maestro di recitazione: “Due in sostanza ne sono le ragioni. La prima è il modo in cui ha risolto il problema della trasmissione dell’esperienza attraverso la parola scritta. La trasmissione dell’esperienza è il problema centrale per ogni maestro, la cui conoscenza non sia solo discorsiva, ma sia conoscenza che si innerva nell’organismo. Non è solo un problema del teatro. La seconda è il lavoro sistematico e operativo che ha condotto sulla zona di confine tra corpo e anima, a prescindere dalla destinazione d’un tale lavoro allo spettacolo”[5].
Per gli stessi motivi fu un grande maestro anche Diderot, per quanto la sua attività scenica fosse pressoché limitata alla drammaturgia. Nel Settecento il filosofo francese espose un’idea che oggi appare totalmente contrapposta a quella di Stanislavskij. Nello stesso dibattito estetico del “Paradosso sull’attore”, affermò che poiché il compito dell’attore consiste nel riprodurre le medesime scene più volte nel corso della sua vita, un’interpretazione basata sulla sola emotività rischierebbe di rendere incostante il risultato, il quale potrebbe essere influenzato dalla stanchezza o dal turbamento, causando l’insuccesso dell’interprete.[6] Niente di più lontano quindi dal gesto psicologico di Michail Čechov, nipote di Anton Čechov, considerato da Stanislavskij il suo più brillante allievo. Fu proprio lui che diffuse il Metodo Stanislavskij negli USA.
Čechov, prima nel suo “All’attore. Sulla tecnica della recitazione” e poi, con qualche modifica, ne “La tecnica dell’attore”[7], continuò e in parte riformulò il Sistema del maestro russo, apportando delle modifiche soprattutto alla fase della caratterizzazione del personaggio; secondo Čechov, l’attore, per immedesimarsi, dovrebbe trovare, utilizzare e pensare ad un centro immaginario del corpo del personaggio stesso. Ma Čechov parlò soprattutto del gesto psicologico, una grande innovazione nella pedagogia attorica. Si tratta di un insieme di movimenti che incarnano la psicologia ed il corpo di un personaggio; è costituito da diverse posizioni che l’attore deve raggiungere e tenere per alcuni minuti, impegnando tutto il corpo con grande intensità. L’attore avrà in tal modo la struttura di base del personaggio e allo stesso tempo entrerà nei diversi umori richiesti dal copione o dalla sceneggiatura.
Čechov si distaccò in parte anche dalla Biomeccanica teatrale di Mejerchol’d, affermando che tutti gli esercizi devono essere psicofisici e non eseguiti in maniera meccanica, per quanto i due studiosi fossero entrambi d’accordo nell’associare a ogni movimento fisico una conseguente reazione della mente. A tal proposito dobbiamo specificare che la Biomeccanica non è un sistema di recitazione ma un ‘sistema di allenamento globale dell’attore’ in funzione di un momento successivo che è la recitazione. La Biomeccanica mette in primo piano la comprensione psico-fisiologica dell’attore: prima di padroneggiare gli strumenti e gli oggetti scenici, il performer deve conoscere il linguaggio del proprio corpo, raggiungendo una vera e proprio scienza del corpo in cui “l’attore è il meccanico e il corpo la macchina su cui deve lavorare”[8].
[1] Franco Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Roma, Laterza, 2006, p.1.
[2] Mirella Schino, La nascita della regia teatrale, Roma, Laterza, 2005, p.1
[3] Franco Ruffini, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Roma, Laterza, 2006, cit., p.1.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Cfr. Denis Diderot, Paradoxe sur le comédien (1770), tr. it. Paradosso sull’attore, a cura di Alessandro Varaldo, Milano, La vita felice, 2009
[7] Cfr. Michail Čechov, On the technique of acting (1991), a cura di Mala Powers, tr. it. La tecnica dell’attore, a cura di Clelia Falletti e Roberto Cruciani, Milano, Dino Audino editore, 2001.
[8] Cfr. V. E. Mejerchol’d, tr. it. L’Attore Biomeccanico, a cura di Fausto Malcovati, Milano,Ubulibri, 1993.