Non me ne vorrete, ma sento il dovere di far emergere i disperati e la disperazione di chi è costretto a confrontarsi con loro tutti i santissimi giorni, semaforo dopo semaforo. Mi sembra paradossale che ci si mobiliti per i naufraghi, per i profughi, per i migranti economici, intesi come persone che cercano lavoro sfidando pericoli e regole, che li si soccorra e che li si accolga, a prescindere dai rischi virali e poi li si lasci fuggire dagli hotspot, nella vana speranza che finiscano nel nulla, che spariscano e basta, perché le frontiere sono più che mai sigillate e si rischia soltanto di aggiungere caos al caos. E allora? Allora i fuggitivi, divenuti “invisibili”, finiscono per coagularsi in prossimità di luoghi degradati, abbandonati all’incuria dalla società civile, a mendicare e bivaccare intorno a chiese, stazioni o a mimetizzarsi nel verde inselvatichito delle città, senza servizi e igiene personale, sino all’abbrutimento, salvo patologie. Così l’accoglienza ipocrita di cui siamo capaci compie il suo salto finale di qualità, perché i disperati finiscono in parte nella disponibilità della criminalità e dei racket. Quella che da decenni è divenuta in Italia e soltanto in Italia un’attività lucrosa, alimentatrice del nero e che è adesso esponenziale e insopportabile è la pandemica invasione dei lavavetri, che presidiano ogni semaforo e che compiono sistematicamente una azione di violenza privata. Di certo sono più insistenti e aggressivi con donne a anziani al volante. Si avvicinano – alla faccia del distanziamento COVID – senza che alcuno preposto li controlli e tanto meno li dissuada. Diciamo che intercettarli nella loro attività irregolare potrebbe consentire almeno un monitoraggio, un doppio screening, per farli riemergere dalla clandestinità e controllare l’eventuale positività da Covid 19, come da altre malattie trasmissibili. Ma sembra che ci sia proprio la preoccupazione che questo contatto e quindi controllo non avvenga, che tutto prosegua nella logica della tolleranza, come male minore. Peccato, che tutto questo non risponda proprio al rispetto delle regole, giustamente invocato da chi governa. E tanto per rimanere in argomento, provate a pensare cosa comporta economicamente questa attività da reietti, che sono costretti a provvedere a se stessi e ad alimentare la pelosa economia di chi li organizza . Tempo fa, in periodo pre-Covid, un “pulitore” ai semafori di Piazza Irnerio a Roma, arrivava a cambiare anche centocinquanta euro di spicci a fine mattinata in uno dei bar prospicenti … Naturalmente, altri semafori possono essere meno produttivi, ma il salasso quotidiano praticamente imposto agli automobilisti, costretti a fermarsi e a pagare di fatto uno o più pedaggi quotidiani, considerando i millecinquecento semafori operativi a Roma, ammonta a milioni di euro al mese. Davvero tanti, se pensiamo che finiscono in parte nelle tasche di chi sfrutta i pulitori, come gli altri che mendicano in “ruoli” diversi, mentre l’Amministrazione non ha modo di manutenere le strade piene di buche e prive di segnaletica orizzontale. Ecco, c’è da chiedersi come mai nessuno inquisisce amministratori pubblici costretti ad una inspiegabile negligenza e le forze dell’ordine ad una imbarazzante “distrazione”. Mi chiedo che senso abbia lasciar correre e far crescere sacche di orribile disagio, con esseri umani palesemente abbandonati nel “mare magnum dell’indifferenza”, dopo essere stati salvati nel “Mare Nostrum dell’ipocrisia”, alimentando in modo demenziale e bislacco il fiorire dell’illegalità. Sempre tempo fa chiesi ad un venditore nord africano di falsi rolex, perché non provasse a trasferirsi da Roma a Parigi: lui mi rispose tranquillo ed ammiccante che da lì veniva, che da lì lo avevano cacciato e che l’unico paese in cui era possibile svolgere questa attività assolutamente illegale era ed è ovviamente l’Italia buonista. Insomma, se l’ipocrisia fosse una virtù, molti di noi ne sarebbero campioni, ma dubito che la questione non si limiti a questo. In realtà a prevalere è il concetto dell’arrangiarsi e del vivere e lasciar vivere. Una vecchia filosofia, un’antica strategia, che adesso mostra la corda, quella alla quale rischiamo di rimanere impiccati.