30 ottobre 2016
– Ieri Aldo Cazzullo ha dato per ferita l’italica identità, l’altro ieri Fabio Finotti , intendendo l’invenzione della patria, si chiedeva : “Siamo italiani, o lo diventiamo ? “. Dunque, l’Italia, quella dei terremotati ottomila comuni ed ancora di più borghi e variegate realtà, praticamente infinite. Forse, Leopardi intendeva proprio questo, guardando oltre l’ultimo orizzonte, interminati spazi e sovrumani silenzi, come ad una ideale cornice in cui comprendere l’eterno e le morte stagioni, il mare in cui naufragare ed annegare con pensiero rivolto all’Italia, così com’era e qual è. In effetti, se per Patria volessimo intendere la terra dei padri, la nostra matrice identitaria, potremmo trovare davvero risposte e spiegazioni a questi e dubbi, che quotidianamente insorgono per chi fatalisticamente vive il quotidiano non avendo che corta memoria ed un relativo interesse per il futuro. Forse, questo nostro atteggiamento deriva proprio dalla precarietà di un territorio dall’eterna giovinezza, ricco di risorse, di forze endogene che lo mantengono vivo e vitale, quasi fosse afflitto da una patologia autoimmune, che lo rende diverso e supremo, ma perverso e sregolato, come antitesi del suo genio, sino all’autodistruzione. Paradossalmente, la nostra grandezza, la nostra straordinaria storia, la nostra ricchezza culturale dipendono dalle fasi geologiche, come l’agricoltura, la pesca e le maree dalle fasi lunari, le comunicazioni e l’emicrania dalle tempeste solari… Penso che relative pause di quiete, dopo tante tempeste, abbiano contrassegnato il nascere o lo svilupparsi della nostra realtà fatta di adattamenti agli algoritmi del territorio, agli umori degli dei, alle benedizioni di Dio e alle perversità del maligno. Quando si dice della grandezza di Roma e delle lucumonie etrusche, che la precedettero, dei secoli bui medievali e del Rinascimento, riassumiamo facendo di tutta l’erba un fascio quasi tremila anni di gioia e sofferenza, di combinazioni alchemiche, che hanno fatto della terra dei vulcani, dei terremoti, delle paludi, della via di mezzo del mare, l’elemento di nesso tra continenti e popoli, tra culture e religioni, tra povertà e ricchezza, ovvero il crocevia del mondo occidentale. Diciamo che la fragilità congenita del nostro territorio è stata ed è anche la nostra forza, l’enzima che ci tiene costantemente orientati al rinnovamento ed alla rinascenza, senza mollare mai. Non c’è una sola realtà urbana in Italia che non abbia subito distruzioni e che non sia stata ricostruita. Non ci sono tratti somatici unitari e rappresentativi di una collettività monorazziale, quanto il contrario per nomi, cognomi, statura, colore dei capelli, della pelle e degli occhi, dei dialetti e delle abitudini. Non era bastato il Risorgimento per ripristinare con il tricolore una base identitaria unificante e ci volle la Prima Guerra Mondiale per mettere insieme siciliani e lombardi, piuttosto che veneti e basilischi. Oggi, la prospettiva è quella di un Paese obbligato a mettere in salvo i propri tesori culturali, oltre che il proprio patrimonio immobiliare pubblico e privato, ma anche necessitato ad integrarsi – come sempre avvenuto nei secoli trascorsi – con i flussi antropici che “naturalmente” lo attraversano, come avvenuto nel passato e come avviene nel presente, facendo di necessità virtù, come avvenne per Dante, Leonardo e Caravaggio, tutti geni migranti, che con altri fecero l’Italia di oggi senza saperlo.