Donald Trump mette i bastoni tra le ruote ad Apple: caso clamoroso, ecco la “minaccia” al colosso statunitense della tecnologia
Quanto saremmo disposti a pagare un iPhone pur di vederlo prodotto interamente negli Stati Uniti? La domanda non è più accademica: Donald Trump l’ha messa nero su bianco con un post su Truth Social, brandendo la sua arma preferita, i dazi, come strumento di pressione contro Apple.
Secondo l’ex presidente, ora candidato per un nuovo mandato alla Casa Bianca, gli iPhone venduti in America dovranno essere fabbricati in America, altrimenti Cupertino si troverà a fronteggiare una tassa del 25% su ogni dispositivo importato.
Il messaggio a Tim Cook è arrivato forte e chiaro, ma anche i mercati hanno reagito con prontezza. Subito dopo le parole di Trump, le azioni di Apple hanno perso il 2,86% in apertura a Wall Street, cancellando oltre 100 miliardi di dollari di valore di mercato.
Il colosso tecnologico si è così ritrovato nel mirino di un’agenda economica che, al di là della retorica, punta a ridisegnare completamente la geografia industriale americana. Apple, Amazon, Walmart: tutte nella stessa tempesta, mentre gli equilibri globali della produzione elettronica vacillano.
Non è la prima volta che la Casa Bianca – sotto l’amministrazione Trump – tenta di riportare in patria la produzione dei dispositivi di punta. Già a inizio anno, Apple ha iniziato a spostare parte dell’assemblaggio in India e Vietnam per aggirare i dazi sulle importazioni dalla Cina. Ma per Trump non è abbastanza: gli iPhone devono essere costruiti interamente sul suolo americano. Punto.
E qui nasce il vero nodo. Produrre un iPhone negli Stati Uniti non è solo una sfida logistica: è un rebus economico. Secondo gli analisti, il prezzo di un iPhone potrebbe salire fino a 3.500 dollari se fabbricato interamente negli USA, a causa dei costi di manodopera e delle infrastrutture.
In Cina, l’assemblaggio è supportato da una forza lavoro specializzata, formata in anni di investimenti e con competenze che oggi gli Stati Uniti non possono eguagliare in tempi brevi. Apple ha già investito miliardi in India e Vietnam proprio per costruire nuove catene di produzione, più resistenti agli shock politici ed economici.
Nel frattempo, però, Cook ha provato a lanciare segnali positivi: 500 miliardi di dollari di investimenti promessi negli Stati Uniti per rafforzare impianti, data center e contenuti originali. Una mossa che profuma più di compromesso che di rivoluzione industriale. Ma Trump, si sa, non ama le mezze misure. Vuole vedere le fabbriche aprire, ora.
La domanda è lecita: gli americani sono pronti a pagare di più per un iPhone “patriottico”? Secondo un sondaggio di CNBC dello scorso anno, oltre il 60% degli utenti vorrebbe un prodotto realizzato in patria. Ma quando si parla di aumenti di prezzo di oltre 1.000 dollari, l’entusiasmo inizia a vacillare. La realtà è che la globalizzazione della tecnologia ha abbattuto i costi, ma ha anche reso dipendenti da filiere complesse, difficili da replicare in un singolo Paese.
Il futuro della guerra commerciale tra Washington e le big tech si giocherà anche su questo fronte: quanto pesa il “Made in USA” in un mondo dove quasi nulla è fatto in un solo posto? E se un giorno vedremo davvero un iPhone interamente americano, saremo pronti ad accettarne il prezzo?
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