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Editoriale

Tornano le “purghe politiche” in Cina

Tornano le “purghe politiche” in Cina. Chi ipotizzava che, nonostante la rigidissima censura e il controllo pervasivo dei mass media, la posizione di Xi Jinping all’interno del Partito comunista fosse meno solida di quanto appariva, ha subito ricevuto una clamorosa smentita. Dopo aver fatto inserire il proprio “pensiero” nella Costituzione (come fece Mao Zedong), il leader ha chiarito con i fatti che non si considera affatto un primus inter pares, bensì un padrone assoluto che non tollera alcun tipo di critica.

Clamorosa la scena svoltasi pubblicamente in chiusura del XX congresso del Partito. L’ex premier Hu Jintao, ora 79enne, segretario dal 2002 al 2012, che sedeva accanto a Xi, è stato costretto ad alzarsi e ad abbandonare la sala sotto scorta. Che la mossa fosse inattesa è testimoniata dallo sguardo smarrito di Hu e dalla sua riluttanza a lasciare il congresso. Scene simili, finora, si erano viste solo nella Corea del Nord di Kim Jong-un.

Ovviamente nulla si sa della sorte che gli verrà riservata. Circa i motivi è lecito pensare che il vecchio premier, che durante il suo mandato aveva promosso la gestione collegiale del Partito, avesse criticato durante i lavori la gestione personalistica e “imperiale” di Xi. Il suo allontanamento pubblico è un chiaro segnale rivolto ai potenziali avversari.

Xi Jinping è saldissimo in sella e non vuole essere “disturbato”, nemmeno dai “grandi vecchi” del Partito. La linea da seguire è quella da lui indicata, e non può essere assolutamente contestata.

Ancora più interessante il caso del premier – non confermato – Li Keqiang. Li aveva affermato pubblicamente che i progressi economici dell’ultimo periodo non erano stati soddisfacenti. Li Keqiang aveva pure deciso di fare una videochiamata collettiva a migliaia di quadri del Partito, spronandoli a trovare un equilibrio migliore tra la lotta alla pandemia e le esigenze della crescita economica. Le risposte non erano state incoraggianti, e parecchi responsabili di grandi città preferirono sottrarsi alla videochiamata.

In realtà il premier stava tentando di ritagliarsi uno spazio autonomo rispetto a Xi, e la videochiamata collettiva ne era una dimostrazione lampante. Tuttavia i funzionari avevano probabilmente fiutato aria di “purghe”, preferendo non esporsi all’ira di Xi.

Tra le “colpe” di Li Keqiang, anche quella di non gradire l’allontanamento dalle riforme economiche varate da Deng Xiaoping negli anni ’70 del secolo scorso, riforme che avevano consentito l’impetuoso sviluppo del Paese in tempi relativamente brevi, tanto da far diventare la Repubblica Popolare seconda potenza mondiale, subito dopo gli Stati Uniti.

Li Keqiang non è ovviamente stato confermato nel Comitato permanente del Politburo, vero organo decisionale del Partito. Pare per ragioni di età. Fatto strano, visto che ha 67 anni contro i 69 di Xi (per il quale, però, sembra che i limiti di età non valgano affatto).

Esce dal nucleo dirigente anche Wang Yang, considerato “stella nascente” del Partito e destinato, in teoria, ad ottenere la premiership alla scadenza del lunghissimo mandato di Xi. Fuori pure il governatore della Banca centrale Yi Gang.

Uno Xi Jinping sempre più solo e autoritario si appresta, dunque, a modellare la Repubblica Popolare a sua immagine e somiglianza, circondato da fedelissimi e pronto a proiettare la potenza cinese anche in materia di politica estera.

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Michele Marsonet

Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova

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