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L’uccello dipinto

Recensione dal film in concorso a  Venezia 76 The Painted Bird del regista Vàclav Marhoul

Troppe volte i nostri occhi incrociano la sofferenza umana per prendere altre vie.

Troppe volte i nostri desideri appannano le nostre memorie, disabituati alla bellezza e incapaci di coglierne il male. L’uomo che spera di morire è l’assurdo cui siamo da tempo costretti a riferirci.

In un mondo quindi destinato a bruciare con i propri sentimenti da tempo sotterrati, il film “The painted Bird” tratto dal romanzo del 1965 di Jerzy Kosiński è invece l’unica chiave che da decenni cercavamo, per aprire o chiudere- a seconda dei nostri cuori- le porte sulla vita.

La storia ci porta sul corpo di un bambino, il simbolo della fragilità, l’immagine passionale su cui la violenza viene aborrita e su cui si scavano facilmente i traumi delle società.

Gli eventi che accadono nella storia condizionano le esistenze a partire da quella giovinezza, fatta di mille cicatrici, dove duri esempi di realtà offrono ancora spunti per ragionare.

Il male non ha tempi nè luoghi e proprio per questo i 35 millimetri di pellicola di Vaclav Marhoul non si limitano mai ad una lingua, proponendo nei rari momenti di dialogo, un incontro con le altre culture. Perchè se è vero che non esiste un solo pensiero, non può esistere nella sofferenza un solo modo di soffrire. Così le fotografie che il grande regista propone, non sono descrizioni sadiche e sproporzionate, ma gesti di amore incontenibile e funzionali alla trama, sadica solamente perchè reale. Il film vive di quelle pennellate espressioniste che ci conducono, attraverso tutta la narrazione, dalle pianure aride di un’opera fiamminga, alla Germania distrutta nel proprio Anno Zero. Si rompono continuamente gli schemi, si svelano i tabù attraverso un linguaggio espressivo così reale da non essere mai, agli occhi di chi sinceramente le sappia guardare, violenti. Arrivando a distinguere la verità della sofferenza dalla menzogna della rappresentazione.

Camminiamo per questo passo dopo passo accanto alla morte, siamo confusi sopra i binari di una ferrovia, viaggiamo in treni che silenziosi portano ai campi di sterminio, eppure troviamo le forze per accettare tutto e continuare a vivere, vedendo nei grandi eventi del passato, la vera violenza che non può essere oggetto di falsi decori. Proprio l’imprevedibilità della vita di un bambino e la sua forza di opporsi (dolcemente) al male, permettono al film di farci correre, senza mai annoiarci e, cosa assai difficile, senza mai finire nella banalità.

Un film che nelle sue quasi tre ore riesce sorprendentemente a rinnovarsi e a non ripetersi, dove la cinematografia di Vladimír Smutný ritrae i volti nomadi fotografati da Koudelka. E’ attraverso quei sorrisi, attraverso quelle rughe che gli stagni torbidi divengono sorgenti d’acqua pura.

A transitare le forme ci pensano quelle fotografie che in contrasti acuti e terribili esplicano il significato del bene e del male, alludendo ai pensieri cardine delle società. Non è difficile allora vedere come un’idea antica (la Luce per i Manichei,Yin e Yang per i Taoisti) sia qui strumento di comprensione proprio per la realtà, così autentica perchè emotiva.

Quella luce che deve comporre il colore, finisce per negarlo, scomponendo la storia in due nitidi estremi. E’ la magia penetrante del bianco e nero, viva attraverso i lunghi piani sequenza, sofferente negli stacchi continui, iconica nei fermo immagine.

Non è allora il sangue a rendere cruento il film ma lo sono i gesti che disumani riportano l’uomo nei propri stadi primitivi. Tanto siamo vicini alle violenze che Kubrick aveva raccontato, tanto ce ne allontaniamo. Un film che non dà risposte ma preferisce tacere, lasciando correre le repliche nelle lacrime che la storia ha portato. Una scelta stilistica non da tutti, anzi da pochissimi.

L’uccello dipinto si pone le domande più importanti del genere umano e lo fa attraverso l’uso della violenza, unica chiave universalmente riconosciuta.

Una castrazione che invita alla libertà come ”privatio” e che si riassume nella metafora del fanciullo che vedendo il tutto nel nulla, trova anche la forza per andare avanti. Un uomo ma ancora più un bimbo, che viaggiando come Odisseo senza nome, riesce a vivere nello stesso modo con cui subisce le sofferenze. Siamo pronti allora ad accettare il male per aspirare al bene, coscienti che le nostre differenze siano semplici pennellate sulle nostre ali.

Nel tempo in cui i nostri occhi (le nostre coscienze) sono complici dei numerosi delitti cui vogliamo sottrarci, in cui le immagini iconiche rimandano a guerre come fatti lontani (Vietnam).

Nel tempo in cui le differenze sono il male e le televisioni ostentano ignoranza, alimentando il mercato gratuito della violenza, una nuova presa di coscienza scuote i nostri corpi, non più indifesi, facendoci dimenticare ogni nome, per il semplice fatto che le storie di sofferenza, non hanno più croci per piangere.

Mario Soldaini

mariosoldaini

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