Un PREMIO ALLA CARRIERA in arrivo all’interno di “STORIE DI DONNE” ed. 2017 per la Professoressa RITA CACCAMO.
Rita Caccamo: una professionista dal curriculum prestigioso e dalle notevoli credenziali anche estere. Se dovesse ripercorrere le tappe piu’ importanti della sua carriera, da che cosa sceglierebbe di partire e cosa selezionerebbe tra le innumerevoli esperienze che hanno costellato una vita lavorativa di successo come la sua?
Posso tranquillamente affermare che, guardandomi indietro, le esperienze di lavoro più interessanti sono state quelle legate a un elemento di caso. Penso, ad esempio, a un’occasione felice nell’ambito della mia partecipazione al Congresso dell’”American Sociological Association” ad Atlanta, Georgia, nel 1993. V’incontrai un piccolo gruppo di colleghi americani che vivevano e lavoravano a Muncie, Indiana. Si trattava di un luogo e di una tappa storica della sociologia statunitense, con eco internazionale. Negli anni Venti e Trenta, infatti, una giovane coppia di sociologi studiò come si viveva in una città media americana: di qui il nome fittizio di “Middletown” a Muncie, Indiana. Ne scaturirono dei risultati inaspettati: dalla “pacificazione” della lotta di classe legata alla politica di alti salari, all’orientamento forte al matrimonio (nella sequenza: matrimonio, divorzio, nuovo matrimonio), al tempo libero, nel quale riemergevano forti le differenze di classe, alla partecipazione politica e comunitaria che favoriva i più abbienti, all’educazione dei figli, che le donne dell’upper class potevano seguire meglio, dato il loro maggior tempo da spendere in queste attività. E poi, la cittadina era un esempio chiaro del passaggio dal “capitalismo concorrenziale” a quello monopolistico: a quel tempo dominava la scena una sorta di “famiglia regnante” d’imprenditori. Ebbene, quell’incontro ebbe degli sbocchi imprevedibili, l’uno di seguito all’altro. I colleghi americani m’invitarono a visitare Muncie nell’autunno, ed io ci andai. Una volta sul posto, mi presentai al Center for Middletown Studies della locale Università (laBall State University). Dopo i colloqui, fui scelta come Visiting Scholar per un intero anno accademico. Complessivamente, passai negli Stati Uniti quasi due anni. Nel 2000 fu pubblicato il volume che avevo scritto durante e dopo la mia esperienza di ricerca, attingendo notizie e informazioni negli Archivi sotterranei della Library che contenevano i manoscritti originali dei Lynd, le corrispondenze, i saggi e gli articoli scritti su di loro, considerati dai più dei “marxisti americani”. Poi, l’esperienza esistenziale fu fortissima, ma avevo gli strumenti per poterla gestire ed elaborare. Nell’onda lunga del tempo e degli studi trascorsi a Muncie, Indiana, quando tornai in Italia, continuai ancora a lavorare sulla sociologia americana coeva agli studi dei coniugi Lynd. Questa volta si trattava di entrare dentro le tematiche di una metropoli fra gli anni Venti e Trenta; dove si sarebbe dovuto formare il melting pot. Chicago, a quel tempo, viveva l’immigrazione di nuovi gruppi umani, provenienti per lo più dall’Europa: lo choc culturale era forte per tutti. In particolare, vi erano gruppi e soggetti che non s’integravano, come succedeva ai polacchi di origine contadina trapiantati in America. Nelle biblioteche di Chicago e di New York, e pure nei confronti con i colleghi americani, riuscii a trovare qualche bandolo della matassa rispetto al “decennio infuocato” della ricerca sociologica fra il 1920 e il 1930. Quest’ultima setacciava tutte le aree della grande città. In particolare, fu per me di particolare suggestione un libro indimenticabile: The Hobo di Nels Anderson, che trattava di un tipo particolare di vagabondo “creativo” quali, in primis, egli stesso e, sul piano della letteratura, Jack London, che ne aveva disegnato un affresco autobiografico nel suo La strada. Tutti acculturati, gli Hoboes entravano e uscivano dal mercato del lavoro soprattutto agricolo: detestavano l’ambiente buio delle fabbriche. Erano fondatori di uno stile particolare di vita aperto al rischio e all’avventura. Di qui sorse in me un’altra idea: quella di vedere se i vagabondi creativi esistevano ancora nella nostra società postmoderna e li intravvidi negli artisti di strada. Seguii una pista che da Roma mi portò a Orvieto, dove, nelle campagne circostanti, vivevano e operavano tanti artisti vagabondi. Già dai primi contatti col territorio e con l’universo che mi si mostrava di fronte, sentii che c’erano tante cose da capire di quel mondo, a dir poco insolito: non solo nelle arti, ma nelle biografie. Fu un’esperienza “corale” di ricerca, non sempre facile ma molto sentita da tutti: non solo da me, ma dai collaboratori-amici che mi seguirono sul campo, chi per un breve, chi per un lungo periodo. Dalla ricerca storico-teorica sulla Scuola di Chicago era ormai segnato il passaggio al campo: la sua originaria ispirazione ri-viveva negli artisti di strada che andavo osservando e interpellando. Con alcuni, per un tempo più breve, per altri, più lungo. Le interviste, poi, furono oltre cento, di cui alcune lunghe trenta-quaranta pagine, nel passaggio dall’oralità alla scrittura. Le conservo ancora registrate su nastro. Si trattava di vere e proprie storie di vita. Ne vennero fuori ben cinque volumi tra il 2003 e il 2009. Furono in molti fra i miei colleghi ad apprezzare la mia lunga ricerca sugli artisti di strada, che attraversò circa sette anni della mia vita professionale, durante la quale continuavo a scrivere e pubblicare testi di storia e teoria sociologica: un doppio registro di riflessione e di scrittura. Alcuni mi suggerirono di pubblicare un nuovo testo nel quale riprendevo le tematiche di tutti i miei scritti sull’argomento; la trovo tuttora una buona idea, ma il tempo è una risorsa scarsa e altri interessi hanno ormai preso il sopravvento. Poi, ritornai sui miei temi legati alla moda e all’organizzazione del privato sessuo-affettivo, ed è da quest’ultimo che arrivo al presente. Mi chiedevo quali potevano essere degli stili di vita e di coppia, condivisibili tra giovani e “giovani anziani” in questa fase storica di allungamento e miglioramento della vita. Nella letteratura internazionale, si parlava molto di “Living Apart Together”, acronimo che è anche ossimoro: vivere separati insieme. Ancora una volta attinsi, dopo la fase di documentazione internazionale, alla ricchezza dell’indagine dal vivo: le biografie incarnate. Presi due gruppi: uno di giovani fra i ventiquattro e i trentacinque anni, l’altro di “giovani anziani” fra i sessanta e i settant’anni. Costituii un team di ricerca, nel quale i più giovani si occupavano dei loro coetanei e i meno giovani si occupavano degli over sixty. Tutti svolgevamo interviste sulla base della mia traccia. Venne fuori uno strano identikit, secondo il quale chi spingeva di più per il LAT erano le donne, sia quelle giovani, sia quelle meno giovani. Gli elementi progettuali in “quella” coppia erano bassi, perché “andava bene così”. Più pressati gli uomini del gruppo meno giovane, a fronte di un orizzonte temporale meno ampio e nel quale lo spettro della solitudine è notoriamente più forte rispetto alle donne, che la “sopportano” meglio. Nel corso di quell’indagine – poi diventata volume dal titolo “Amori precoci, amori tardivi” – mi venne in mente il gruppo sostanzioso dei singles, ai quali è stato concesso poco interesse nel nostro Paese. Si trattava di un gruppo “contiguo” al LAT e il paragone poteva essere proficuo. E, a mio avviso, lo è stato.
Nel suo vasto percorso professionale d’interessi sociologici indagati sono stati ovviamente tantissimi i temi approfonditi, insegnati, amati e magari anche odiati, perché no. Se dovesse sceglierne solo tre tra quelli più sentiti nel nostro Paese, quali sceglierebbe, e perché?
Risalendo all’indietro, ad esempio quando ero redattrice di “Memoria” Rivista di storia delle donne, ricordo che i temi lì affrontati da me e da altre autrici avevano tutti una certa rilevanza per il mondo femminile: il dilemma maternità/non maternità, donne nella storia, invecchiamento e identità femminile; tutte tematiche attuali ancora oggi; spesso nodi non ancora risolti all’interno dei ruoli di genere. Per quanto riguarda, poi, i miei volumi, posso individuare con chiarezza tre momenti (e altrettanti temi) della mia produzione che hanno avuto un certo seguito sul territorio nazionale e hanno suscitato un ampio dibattito. Penso, ad esempio a Il filo di Arianna. Una ricerca sulle professionalità creative (Angeli, 1989), dove si studiavano gli atteggiamenti femminili verso il lavoro intellettuale, nella loro inevitabile interferenza con la vita quotidiana e privata. Ne emergeva un quadro complessivamente conciliato in rapporto a tali sfere. Il tutto era avvalorato da cinquanta storie di vita femminili: altrettante testimonianze del continuo attraversamento dei mondi della vita, incluso il continuo passaggio da universi maschili e universi femminili, con un notevole stress rilevato dalle donne intellettuali interrogate. Il lavoro intellettuale femminile veniva così portato in emersione, rivelando pure elementi inconsueti, nella sua innegabile rilevanza nella storia e nella politica sociale del nostro Paese, che vede ancora oggi le donne combattere per la propria affermazione/emancipazione. Il secondo argomento che ha suscitato un elevato interesse negli ambienti e fra persone le più diverse è stato quello degli artisti di strada dei quali ho parlato prima: un mondo che ho fatto conoscere anche nei suoi aspetti più spinosi. Purtroppo, date le mancanze della casa editrice – che non fece alcun lavoro di divulgazione, e adesso non esiste più – i cinque volumi non hanno avuto la diffusione che meritavano; nonostante il valore di testimonianza di un mondo di vite nomadi, delle quali tante persone conoscevano gli spettacoli di strada: come Piazza Navona a Roma. La mia resta l’unica ricerca che affonda nelle biografie e nei vissuti degli street-artists, dietro la facciata dello spettacolo, che è di qualità variabile, a proposito del luogo e del singolo artista. Ho rilevato in proposito che alcuni artisti si allenano tutti i giorni per essere in forma fisica e poter affrontare al meglio la “buona” stagione. Inoltre, i migliori lavorano sugli spettacoli fin nei minimi particolari, a fronte di almeno la loro metà, che invece lascia tutto all’improvvisazione, con i pericoli possibili. Sono nomadi del presente e vagabondi creativi (come lo erano gli Hoboes) che hanno volontariamente “mollato la normalità”. Si tratta, in realtà, di un mondo sconosciuto dietro la facciata spensierata e giocosa. Ogni artista “viene dal buio”, ognuno ha la sua storia, completamente nascosta ai più. La mia ricerca ha illuminato questo mondo e l’ha reso a portata di mano di chiunque volesse saperne di più. Il terzo argomento, riguardante singles e laters, è in assoluto quello che interessa persone di tutti i tipi. Del resto, chi non è stato single almeno per un periodo della propria vita? Chi non ha vissuto un rapporto importante, ma senza coabitazione? E inoltre: chi non è interessato ai nuovi modi di vivere la vita sessuo-affettiva, fuori delle istituzioni canoniche del matrimonio, e anche della convivenza? Oggi, infatti, le possibilità si sono moltiplicate e questo ci fa sentire tutti, in qualche modo, “pionieri”. Per i contenuti specifici del mio più recente volume rimando a un momento successivo di questo colloquio. Nella mia biografia intellettuale, infine, non c’è stato neppure un tema da me odiato. Semmai, in certi momenti della ricerca mi sono trovata di fronte a groppi da risolvere, anche sul piano della scrittura, che ne doveva rendere conto. Con questo voglio dire che non sempre mi sostiene il “flusso di coscienza”; e mi posso facilmente ritrovare a ricostruirne il filo. Fa parte della “sfida”.
Per il vasto contributo intellettuale dato con i suoi saggi scritti all’Università La Sapienza di Roma (Facolta’ di Sociologia e Comunicazione), possiamo considerare che Rita Caccamo è, di fatto, anche una prolifica scrittrice. Lei si considera intimamente di più un’accademica prestata al mondo della scrittura o una scrittrice prestata al mondo accademico?
Bella domanda! Mi costringe a scavare nella mia biografia remota, perché ci sono state fasi molto differenti nel mio percorso, nelle quali poteva vincere la sociologia come vocazione accademica, o la scrittura narrativa e più libera. Nella mia fase di accostamento alla sociologia, fin dal primo anno d’università vedo con chiarezza un primo passaggio da una fase “letteraria”della mia formazione ( a tredici anni avevo già letto Hemingway, Maupassant, Dostoevskij; poi, a sedici avevo scritto oltre cento poesie) alla passione che mi afferrò quando scoprii la sociologia. Da non dimenticare che, con i nuovi interessi, dovetti abbandonare lo studio del pianoforte che mi aveva accompagnato fin dai cinque anni. Ben presto, però, l’elemento letterario della mia prima formazione lasciò il posto agli spunti intellettuali che mi venivano dallo studio sistematico della disciplina, che poi diventò il mio mestiere. La letteratura cominciò a disporsi sullo sfondo, mentre emergevano nuovi interrogativi e nuovi interessi. Partecipai a un’ampia ricerca sulle borgate di Roma, dove svolsi le prime interviste della mia vita. Avevo appena diciannove anni. Scoprii il mondo della povertà urbana visto da vicino e non attraverso la fiction, che aveva certamente una sua importanza, ma faceva capo a un altro arsenale di conoscenza. La scrittrice prestata al mondo accademico, del quale volevo far parte già da allora, si trasformò in pochi anni in un’accademica prestata al mondo della scrittura. La sociologia prevaleva su tutto: dalle letture più casuali a quelle più complesse si faceva lente d’ingrandimento per la lettura del mondo. Nei miei scritti giovanili, senza volerlo, mi concedevo esempi, metafore riprese da altri arsenali mediatici. Poi, nel corso della mia carriera di sociologa, la scrittrice prestata al mondo accademico si allontanò sempre più come modello narrativo, e al suo posto subentrò la giovane accademica in cerca di riconoscimento nel suo vasto gruppo professionale. Tanti e tanti scritti dove la scrittrice poteva fare solo capolino; ma al centro vi erano il fuoco e il piacere della sociologia. Devo però aggiungere che lo slittamento dalla narrazione “libera” a quella saggistica e specifica si realizzò senza troppe forzature. Ho sempre seguito, nella mia produzione variegata, quelli che a mio avviso sono i requisiti necessari per ogni lavoro di scrittura: creatività, ispirazione tematica, costruzione del testo e del suo plot narrativo. Certamente, la mia Bildung, la costruzione del sé precoce, tra letteratura e musica, mi ha influenzato a volte non solo nella scrittura ma nella scelta tematica, la cui originalità si faceva principio ispiratore. E il mio essere donna contribuiva, anche inconsciamente, alla sensibilità verso certi approcci e argomenti piuttosto che altri. Forse anche per questo quando mi trovavo di fronte ad un nuovo motivo di ricerca, mi ci immergevo completamente e senza condizionamenti: requisiti essenziali del saggio specialistico. Del resto, anche la scrittura letteraria, è solo apparentemente “libera”: segue sue regole e va continuamente arginata e controllata. Oggi, mi ritrovo nella piacevole sensazione che, all’interno di una ricerca ben strutturata e condotta, mi vengono ispirazioni e motivi inaspettati e pure espressioni linguistiche che provengono da antiche letture, rivissute nel tempo. E questo mi piace moltissimo: le due anime della scrittrice e della sociologa si ricompongono senza sforzo alcuno, in una sintesi che considero felice, e sull’onda della quale spero di poter lavorare nel tempo futuro.
L’ultima “creatura” partorita qualcuno sostiene sia spesso la piu’ amata. Vale anche per il suo ultimo libro, “Strettamente personale. Singles e coppie non conviventi si raccontano” (Edizioni Nuova Cultura)? Di questo lavoro appena uscito sappiamo che ha già avuto una menzione speciale nell’ambito dello Spoleto Letteratura ed. 2017.
E’ certamente vero che l’ultimo libro, coronamento di una nuova gestazione, è di solito anche il più amato. Non fa eccezione il mio Strettamente personale: Singles e coppie non conviventi si raccontano. Tuttavia, vorrei aggiungere che nel mio caso, si tratta anche di un mutamento di scrittura, al quale ho fatto riferimento prima: affermando, a volte, la prevalenza dell’elemento sociologico su quello letterario, altre, il percorso contrario. In quest’ultimo caso si è trattato per me di sviluppare la narrazione: di qui il “si raccontano” del titolo. Più specificamente, il mio volume comprende in sé due ricerche: la prima sui singles e la seconda sulle coppie non conviventi, per complessive cento interviste biografiche. I soggetti single e i LATer possono trasformarsi l’uno nell’altro, com’è avvenuto a volte sotto l’occhio del ricercatore. Ho dato una definizione di single molto semplice: chi vive senza contigui, per estensione, senza partnership. E’ però la prima a essere prevalente e più significativa sociologicamente. Per quanto riguarda la definizione di later, essa proviene da LAT (Living Apart Together ) e comprende i soggetti che vivono separatamente insieme, dividendosi su due case e restando ognuno nella propria, magari alternandosi in modo variabile nell’una o nell’altra. I singles rappresentano oltre il 30% popolazione italiana. Nell’ambito di questo ampio fenomeno ho operato un’opzione sulle età centrali: trentacinque-sessant’anni d’età anni d’età. Storicamente, i soli ci sono sempre stati; ma ieri lo erano per destino. Si pensi alla Parigi del 1900, dove, a seguito di una forte immigrazione interna alla popolazione francese, si era formato ben un milione di domestici, assieme all’impatto dei nuovi lavori femminili: infermiere, impiegate, sartine e pure cameriere. Per queste ultime, è d’uopo il riferimento al perturbante romanzo di Mirbeau, poi film di Bunuel con Jeanne Moreau: “Diario di una cameriera”. Oggi, si è single per scelta. Si elaborano stili di vita specifici per tale nuovo target (abitazioni ridotte, budget quotidiano, modalità di tempo libero). Ho focalizzato il mio lavoro su tre aree principali di vita: lavoro, amicizie, sfera sessuo-affettiva. Le priorità di vita per uomini e donne hanno rivelato differenze importanti. Al maschile, nelle fasce d’età centrali (con addensamento tra i quarantacinque e i cinquantacinque anni) vi è un ordine decrescente di tali precedenze vitali che vede al primo posto il lavoro, seguito dalla sessualità, e poi dalla socialità; in una complessiva minore cultura dell’affettività rispetto al femminile. Per le donne, l’ordine è diverso: viene prima la sessualità, poi la socialità, infine, il lavoro, in una maggiore e diffusa cultura dell’ affettività. C’è da rilevare come l’ordine delle priorità cambi in funzione dell’età: per gli uomini emergono nel tempo l’amarezza e il desiderio mancato di nuova coppia, per le donne, tendenzialmente, si forma la “solitudine creativa”. Per uomini e donne, con l’avanzare dell’età si fa “rete” o si cerca di farlo: per gli uomini più legata ad attività sportive, per donne a giochi di carte o attività culturali. Ho considerato, poi, la dimensione interiore del ricordo, anch’essa distinta per generi. Per i soggetti maschili, si è evidenziata la nostalgia dei grandi amici. Si pensi al bellissimo romanzo di formazione di Alain-Fournier “Il grande Meaulnes”. Per le donne è emersa la nostalgia della bellezza legata alle prime esperienze sessuo-affettive, “dove non si saltano i passaggi”, come spesso avviene fra adulti. La seconda ricerca di cui si parla nel mio volume, si riferisce alle coppie non conviventi. Per l’età, ho scelto di considerare soggetti oltre i sessant’anni, dove si addensa il fenomeno del LAT, con valenza comparativa rispetto ai singles delle stesse fasce d’età. Sono emersi chiaramente: un rapporto forte con famiglia origine e/o acquisita; la legittimazione della coppia attraverso “esterni”: parenti, amici, vicinato; la differenza tra LATer (spalmati su due case) e pendolari (che condividono una casa); la maggiore libertà dei soggetti coinvolti nella relazione. Complessivamente, però, nella mia ricerca si possono rivelare anche molti limiti del LAT: non è forma intera coppia; l’altro non può svolgere il ruolo di supporto del “coniuge” nel quotidiano; riduce la dimensione del “progetto; non raccoglie la sfida della vita di ogni giorno; aumenta la negoziazione interna alla coppia su tempi e luoghi, da vivere separatamente o insieme. Un mancato accordo su questi aspetti crea disagio e insoddisfazione e può giungere a minare il rapporto. Sempre sulla base dei loro racconti, in entrambi i gruppi di soggetti studiati sono stati individuati dei “rischi”: per i single, l’isolamento e lo stigma sociale; per i later, l’invasione degli altri negli spazi privati, attraversati da molteplici presenze. Mi è stato chiesto in questi giorni, in occasione di una presentazione del libro: “Secondo lei, chi è più felice fra single e later?” Ho risposto che, da ricerche internazionali sulla felicità, risultano più felici i soggetti che hanno: • condizioni socio-economiche buone• ambiente ecologicamente pulito• partnership stabile• buona socializzazione. Secondo questi parametri, sarebbero i Later i soggetti potenzialmente “più felici”, con meno incertezze di status e maggiore riconoscimento, per quanto precario, e sopratutto senza rischi di stigma sociale, come invece avviene ancora oggi per i singles. Tuttavia, dopo tanta ricerca, non vedo una risposta univoca ai dilemmi del privato in termini di felicità. Semmai, nelle mie indagini sul terreno, si sono evidenziate le più ampie possibilità esistenziali, viste attraverso il prisma della complessità e della flessibilità, che intersecano oggi la vita di tutti: non solo singles e non conviventi, ma anche coppie stabili e sposate; per non parlare della famiglia.
Lisa Bernardini
Nella immagine cover, Rita Caccamo
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