Quanto odio in una sola goccia di sangue versata, quanta violenza nel freddo di Sachsenausen.
Forme angoscianti, illusioni geometriche di un rigore insensato, denotano il male di una qualche epoca terribilmente vicina. Camminando, restando ritti ci si ricurva su noi stessi. Attraversando il campo, infatti non si ha il coraggio di tenere le spalle alte, ma gobbi cadono gli sguardi a vergognarsi del male inventato, in quel freddo, tremendamente ustionante, che brucia la nostra pelle.
Si perdono le emozioni e si aliena ogni bene, le parole, i pensieri dove c’è tanto male, dove è nata la cattiveria, non hanno senso e perde di significato ogni cosa. Non abbiamo né voglia né bisogno di nulla se non di fuggire, lontani. Ma avendo sperimentato ormai tanta cattiveria, perde di senso anche scappare, perché ovunque ormai abbiamo bastonato vite e ucciso morali. Perché non saremo mai più al sicuro da noi stessi, dalla nostra storia. E così, abbandonati dal male, avendo bruciato il giusto e scappando nella memoria, inciampando nelle pietre del campo, perdiamo anche la voglia di respirare. Quell’aria infatti non è buona, quell’aria infatti fa male. Un’aria grigia, un’aria fredda, è cenere, è memoria, sicuramente è anche la nostra storia che ci viene obbligata; e costretti prepotentemente ad assorbirla, e costretti a piangere dinanzi a ciò che di più osceno c’è al mondo, ovvero una cattiveria sistematica, dinanzi a questo cadiamo non riuscendo minimamente a concepire, siamo abbandonati anche dai sensi che hanno visto, e sentito troppo, negli odori e nelle mille costrizioni del campo. I nostri occhi seccati dal freddo non trattengono le lacrime e bagnano la terra sporcata dalla storia, sterile per la cattiveria, benedetta col sangue.
Spaesati tre le precisissime vie del campo, tremendamente idealizzate, temiamo qualcosa. Pensando a quei corpi, immobili nel freddo gelido del giorno o della notte così lunga, così forse confusa nella cupezza del cielo. Pensando a chi, dopo essere stato consumato dal tempo e dalla cattiveria veniva poi gettato, tirato via dalla storia, ci attraversa dunque un brivido. Una paura folle che diventa subito memoria, angosciante. In quel luogo dove anche la mitraglia è solo un deterrente, dove si bruciavano consapevolmente idee e persone, morali e cadaveri. In quel luogo ora ci abbandoniamo, dove profuse esistenze e mantelli vuoti dominano la polvere che toccano i nostri occhi che sentono le nostre pelli.
E dove nulla è sensato, dove domina l’antimorale, dove ci perdiamo tra critiche e suggestioni, ricerchiamo un senso tanto lontano, tanto vicino nel tempo.
Attraversiamo poi le strade asfaltate dalla democrazia nei viali, mettiamo terreni calpestabili e teche di vetro in quelle celle claustrofobiche, addirittura camminandovi, parliamo e ridiamo, non essendo dotati di tanta profondità nell’animo ed essendo un po’ stupidi nella mente. Così forse riabbandoniamo un’altra volta chi era già stato abbandonato, forse perché non ci riteniamo complici, forse perché ci basta una preghiera per capire; ci facciamo una croce in faccia ripulendoci dunque da ogni male, costruiamo immensi monumenti e altrettante cerimonie ma poi, quando non è il tempo di ricordare o siamo troppo stanchi per questo, viviamo lungi da ogni ricordo, da tante esistenze. Costruiamo muri, addirittura neghiamo! Forse perché risulta facile poter avere una fede temporanea, forse perché è comodo dimenticare, in qualche modo ci estranea. Ma sicuramente la nostra storia e noi stessi con lei, abbiamo bisogno che qualcuno, almeno qualcuno trattenga una morale. In un periodo così triste della storia dove anche l’identità di un paese non esiste, immemore ormai, anche di sé stesso.
Mario Soldaini
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