Finché si scherza, si scherza, ma poi … Mettetela come volete, ma l’immagine di Roma e del nostro Paese non può essere distrutta da chi ha contribuito a minarla, affidando alla burocrazia il potere tolto alla politica trentaquattro anni fa, tradendo la Costituzione dei Padri Fondatori della Repubblica Italiana, che vedevano nei pesi e nei contrappesi le forme di garanzia, che diversamente sono destinate a saltare con danni perversi. Quando in nome di “Tangentopoli” si fece di tutta l’erba un fascio, furono eliminati tutti i Partiti della prima Repubblica con la loro storia, i loro ideali, i loro uomini di valore, comprese le mele marce, sparando nel mucchio. Il risultato fu premiante per improvvisatori, dilettanti, speculatori, opportunisti, amici degli amici. Furono davvero pochi i superstiti di quella che era una intera classe politica formata sin dal XIX Secolo, erede di Mazzini, Cavour e Turati o magari orfana di Pio IX e Carlo Marx, piuttosto che di Mussolini. Di tornata in tornata le elezioni hanno progressivamente assottigliato la percentuale dei cittadini votanti e aumentato il consenso per i movimenti di protesta. Per generazioni si è demonizzata la politica, con il risultato di averne decapitato l’autorevolezza di governo, trasferendo ai burocrati competenze nei tempi brevi, medi, lunghi e lunghissimi tanto quanto la carriera di funzionari che, se non all’altezza, contrari all’amministratore politico di turno o peggio, corruttibili, possono avere un ruolo devastante. I risultati si sintetizzano in quel fenomeno che qualcuno ha voluto chiamare infelicemente “Mafia Capitale”, causando dopo il danno criminale anche la beffa di un ulteriore sputtanamento dell’immagine italica nel mondo. Eppure, la storia millenaria di Roma, con tutte le sue traversie, ci offre spunti straordinari per guardare diversamente al futuro, posto che il vero tesoro della Capitale non è quantificabile nei numeri delle banconote imbustate, ma sta nel suo ineguagliabile carisma, nonostante l’inqualificabile degrado in cui è piombata sin dalla scomparsa dei Cesari, passando per gli anni tetri dell’Alto Medio Evo. Credo che, uno per tutti, dovremmo recuperare la memoria di un fatto storico, quello che riguardò la Regina Cristina di Svezia , che scelse Roma in alternativa al suo dorato algido Regno: “ Il 23 dicembre 1655, la regina di Svezia fece la sua entrata solenne nella Città Eterna con splendore ancora maggiore dell’aspettazione, essendo comparsi tutti questi principi e cavalieri l’uno a gara dell’altro per soddisfare al desiderio di Sua Santità. Quel giorno, soffiava a Roma un vento impetuoso e pioveva. Nonostante le intemperie Cristina decise di fare il suo ingresso solenne su un cavallo bianco, la chinea. Cronisti, cerimonialisti, autori di Avvisi e diaristi descrissero accuratamente quel giorno memorabile, le scene, gli attori e le tappe del trionfo, soffermandosi con il loro linguaggio barocco e aulico su ogni minimo e significativo particolare e offrendoci così, in una sorta di cronaca in diretta, la possibilità di visualizzare l’evento. Sappiamo dunque che Cristina non utilizzò la magnifica carrozza a sei disegnata da Gian Lorenzo Bernini e realizzata da Giovanni Paolo Schor, offerta dal pontefice in persona, Alessandro VII Chigi, proprio per l’occasione dell’entrata trionfale. La regina montava il cavallo «all’uso di donna», contrariamente al suo solito, e indossava «una veste alla francese di color simile al cenerino, non di seta, ma guarnita con trina, o reticella d’oro aperta in modo che, dall’una e dall’altra parte del cavallo cadeva»; sulle spalle portava una mantellina nera di taffettà e sul capo un grande cappello alla moda, piumato e bordato d’oro. Cavalcava in mezzo ai due cardinali che erano stati inviati dal papa ad accoglierla a qualche miglio dalla città in qualità di legati apostolici, Federico d’Assia, suo cugino e anch’egli ex luterano convertito come lei, e Giovanni Carlo de’ Medici, fratello del granduca di Toscana, appartenente alla fazione spagnola a cui si era legata l’ex regina. Era seguita dalla splendida carrozza color argento e celeste, dettagliatamente descritta dai cronisti. Era tutta d’argento con statue, figurini, intagli e imprese misteriose, d’invenzione del Cavalier Bernino, con la fodera e la coperta di velluto color celeste tirata da sei corsier leardi con i finimenti dello stesso drappo, come pure del medesimo erano adorni i cocchieri, la lettiga, e la sedia e le coperte de muli de la chinea. La regina era preceduta nella cavalcata da otto trombettieri, un tamburino e due paggi, seguiti da una compagnia di armati, con spade sguainate e vestiti «con casacconi di panno bottinati d’oro con maniche lunghe, e aperte con quattro croci di velluto nero nel petto, nelle spalle e nelle maniche». Dopo di essi procedevano altri soldati e dodici «cariaggi con testiera di seta e d’oro, piastre e sonagli d’argento con pettorali di seta e tortori d’argento»: i cavalli erano condotti a mano con cordoni d’oro. A Porta del popolo, l’entrata principale da cui si accedeva alla «città santa» e che per quell’occasione, insieme con la piazza, era stata risistemata da Bernini, la attendeva il Sacro Collegio, con i cardinali a cavallo, vestiti di cappe e berretti viola poiché era tempo di avvento. Qui fu accolta a nome di tutti dal vice decano, il cardinale Francesco Barberini, che le rivolse un «breve, ma elegante complimento». Oltrepassata la porta, tra spari e applausi della immensa folla accorsa ad assistere allo spettacolo venne scoperta l’iscrizione in marmo appostavi, composta dallo stesso pontefice: felici faustoque ingressui a.s. 1655. Anche in questo caso, come per tutti i grandi rituali urbani, politici e religiosi, Roma proponeva se stessa come scenario della festa, quale teatro e palcoscenico di eventi spettacolari e di pubbliche celebrazioni. Ce lo confermano ancora una volta i cronisti, con l’attenzione che riservarono all’elemento spaziale, ai luoghi che ricoprivano ruoli ben definiti nella scena complessiva della città e che costituivano un percorso definito e carico di senso. Mentre all’improvviso la pioggia cessava e il cielo si rasserenava – ciò che venne interpretato come un segno del favore divino per quella giornata di trionfo della Chiesa e della religione cattolica –, la solenne cavalcata proseguì per il Corso e da qui a San Marco (oggi piazza Venezia), fino a piazza del Gesù e poi a piazza di Pasquino, raggiungendo, per la via dei Banchi, Castel Sant’Angelo, la fortezza di Roma, dove venne salutata da una gran salva di moschetti, da mortaretti e colpi di cannone. Il corteo proseguì fino a San Pietro, tappa conclusiva ed emblematica…