La repressione sovietica in Ungheria. Merita di essere segnalato il bel libro di Alessandro Frigerio Budapest 1956. La macchina del fango (con prefazione di Paolo Mieli, editore Lindau). Lo sto leggendo in questi giorni, e tratta dei resoconti forniti dalla stampa del PCI in occasione della rivolta ungherese del ’56.
Come nota Mieli nella sua lucida prefazione “i fatti sono noti”. Innumerevoli i volumi dedicati all’argomento, tra i quali mi limito a citare quello di Enzo Bettiza: 1956. Budapest: i giorni della rivoluzione (Mondadori). Il giudizio storico è ormai netto, con le autocritiche successivamente espresse da tanti esponenti di primo piano del Partito Comunista, da Pietro Ingrao all’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Ossessivo il rifiuto de “L’Unità”, “Vie Nuove” e “Rinascita” di parlare di rivoluzione. Veniva sempre usato, per descrivere ciò che stava accadendo in Ungheria, il termine “fatti”, con il fine di sminuire la portata della rivolta popolare. Assai note anche le crisi di coscienza che portarono Antonio Giolitti e altri ad abbandonare il partito sul quale Palmiro Togliatti esercitava un controllo ideologico ferreo, basato tra l’altro su categorie gramsciane interpretate secondo i canoni di una rigida ortodossia.
Dal mio punto di vista, tuttavia, è essenziale cercare di capire perché la stragrande maggioranza di dirigenti e militanti esprimessero giudizi favorevoli così netti sull’intervento sovietico. Non è certo una questione banale. Oggi è facile condannare senza “se” e senza “ma”. Allora, per chi viveva e s’impegnava all’interno del PCI, lo era assai meno.
Scrive dunque Frigerio che “un mito straordinario – e della cui portata oggi si stenta quasi a credere – circondava il Paese della Rivoluzione d’Ottobre negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale”. E qui occorre rifarsi all’ormai classica analisi di François Furet ne Il passato di un’illusione, quando sottolineava che, per l’Unione Sovietica, il successo nel 1945 era stato, ancor prima che militare, teologico-politico.
Proprio per questo occorre scegliere una chiave di lettura adeguata al fenomeno che si vuole interpretare. Il marxismo – soprattutto nella sua versione leninista – è stato una grande utopia, la maggiore del secolo scorso. Aderendovi si entrava a far parte di un sistema etico-ideologico onnipervasivo, retto da leggi sue proprie e dominato da canoni peculiari di scientificità. In tal senso esso offriva ai suoi adepti un’interpretazione totalizzante della realtà e della storia, dotata di un proprio e unico concetto di “verità”. Non è quindi difficile comprendere come il militante comunista fosse automaticamente condotto a giustificare ogni eccesso in vista del conseguimento di un obiettivo di ordine superiore: la fine dello sfruttamento e la realizzazione di una società senza classi.
E’ sufficiente del resto leggere il celebre volumetto Il Partito Comunista Italiano scritto da Togliatti per capire che le cose stanno così. Nelle sue pagine la nascita e il successo del partito vengono visti come il risultato di una “necessità storica”. In altri termini i comunisti – a differenza degli altri – pensavano di aver rettamente compreso il vero significato della storia e le leggi necessarie che sovrintendono al suo sviluppo.
In altre parole, per comprendere il marxismo e l’azione dei partiti comunisti come quello italiano si deve accettare il fatto che tanto i dirigenti quanto i semplici militanti “credevano” nel senso religioso del termine, e vivevano all’interno di un mito di cui l’URSS costituiva l’incarnazione e la realizzazione concreta, per quanto ammissibilmente imperfetta. Ciò significa che non erano in malafede né li si può giudicare facendo ricorso a categorie esclusivamente liberaldemocratiche. Bisogna comprendere immedesimandosi, mettendosi nei loro panni. E’ evidente che Stalin e Togliatti avevano la stessa visione del mondo e condividevano il medesimo schema concettuale. E, se ci si muoveva all’interno di quello schema, la sopravvivenza dell’URSS – in quanto bastione di un socialismo concepito in “quel” modo – costituiva l’obiettivo primario.
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