La piaga del bullismo. La notizia ha dell’incredibile, tanto che leggendola mi sono stropicciato gli occhi per appurare se per caso stavo ancora dormendo. Dunque. Circa cinque anni fa una professoressa di Palermo punisce un episodio di quel bullismo che è ormai divenuto prassi comune nelle nostre scuole. Due “bulli”, per l’appunto, impediscono l’accesso al bagno a un loro compagno di classe sostenendo che è gay: deve piuttosto andare nel bagno delle femmine.
Uno dei due si scusa, l’altro no, anzi insiste. Detto fatto. L’insegnante obbliga il bullo non pentito a scrivere cento volte sul quaderno “Sono un deficiente”, e pare che il ragazzo l’abbia fatto scrivendo cento volte “deficente” senza la “i”.
Apriti cielo. Il padre dell’alunno, invece di scusarsi per il comportamento del rampollo – e magari anche per l’errore di grammatica – si arrabbia furiosamente e denuncia, invece, la docente. Come quasi sempre accade quando c’entra la nostra magistratura, sono necessari ben cinque anni per avere la sentenza definitiva, che di tutto l’episodio rappresenta l’aspetto più strabiliante.
Condannata è la professoressa: 15 giorni di carcere, che ovviamente non sconta (anche perché nel frattempo ha raggiunto il pensionamento). La sentenza, addirittura confermata dalla Cassazione, si basa su un ragionamento che più distorto di così non potrebbe essere.
Secondo il giudice, infatti, i docenti non possono rispondere con “metodi prepotenti” agli episodi di bullismo poiché essi “rafforzano il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici e sociali) sono decisi da rapporti di forza o di potere”. Non basta. Si legge dopo che “il comportamento doloso – che sarebbe poi quello dell’insegnante – umilia, svaluta, denigra o violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute anche se è compiuto con una soggettiva intenzione educativa o di disciplina”.
Alla faccia, vien da dire, della tanto celebrata civiltà giuridica italica. Facile immaginare la soddisfazione del padre che si era infuriato e il sorriso sarcastico del figlio nell’apprendere la punizione esemplare inferta alla sua ex insegnante. La quale certo non se l’aspettava. Fa giustamente notare che, agendo in questo modo, i docenti sono alla mercé dei genitori, e si chiede quale sia il messaggio che viene trasmesso ai ragazzi.
Si noti, per concludere, che le sentenze “strane” – almeno per chi scrive – si registrano ormai ovunque. In parecchi casi di rapina a mano armata nei negozi non è stato condannato il delinquente che ha tentato il colpo, bensì l’aggredito che ha manifestato un “eccesso di difesa”.
Messaggi chiarissimi. L’insegnante non deve irritare i genitori dei bulli. Chi subisce una rapina può anche reagire, ma soltanto in modo soft perché, altrimenti, in galera ci finisce lui (o lei), non certo l’aggressore. Lecito, credo, porsi un sacco di interrogativi sulla preparazione di molti nostri magistrati, e sulla filosofia che ispira le loro sentenze.
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