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Editoriale

La nozione di “confine”

In Europa il concetto di “confine” sta tornando in auge dopo essere stato demonizzato per un lungo periodo. Con il trattato di Schengen ci eravamo illusi di essere finalmente entrati in una nuova epoca, contrassegnata – almeno all’interno della UE – dalla libera circolazione delle persone e da un’assenza pressoché totale di controlli.

Tale tendenza si è poi diffusa ben al di là del Vecchio Continente. Molte nazioni extra-europee hanno abolito, soprattutto a fini turistici, l’obbligo del visto per i cittadini comunitari e, con grande sollievo di molti era possibile recarsi in luoghi lontanissimi e ammirarne la bellezza senza doversi sottoporre alla fastidiosa procedura di chiedere permessi ad ambasciate e consolati.

Penso tutti rammentino la sensazione provata quando Schengen entrò in vigore. Da un giorno all’altro scoprivi che, sbarcato all’aeroporto di Parigi o di Berlino, ti lasciavano passare dopo una rapida occhiata alla carta d’identità e, a volte, neppure quella. Ecco dunque l’impressione di “essere a casa” ovunque, accompagnata dal senso d’orgoglio per la dimostrazione di civiltà che la UE sapeva offrire a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dal Paese di provenienza.

Ora questo sta finendo sotto il peso degli avvenimenti che tutti conosciamo, e non è detto che si ritorni in tempi brevi alla situazione precedente. Anzi, è molto plausibile pensare il contrario. E qualche riflessione diventa allora necessaria.

Il concetto di “confine” è in effetti ambiguo o, ancor meglio, ambivalente. Da un lato denota separatezza ed esclusione. Inglesi, francesi o spagnoli sono esseri umani come me, italiano. Per di più io e loro apparteniamo a quella che, con espressione forse un po’ magniloquente, si definisce “civiltà comune”. Ne consegue che i controlli, una volta valicati i confini nazionali, sono ingiusti e vanno aboliti.

D’altro canto il “confine” ha pure un significato positivo. Fa capire che siamo entrati nel territorio di una nazione che ha una storia, una cultura e dei valori diversi dai nostri. Il grado di diversità varia naturalmente a seconda dei contesti, e può essere più o meno rilevante. Ma, in ogni caso, è il risultato di una sedimentazione ideale e culturale lunghissima, poi sfociata in un’identità che appartiene ad alcuni e non ad altri. Che c’è di male, in fondo, nel voler difendere la propria identità, assicurandosi che chi arriva da fuori non abbia intenzione di nuocere?

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Michele Marsonet

Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova

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