Molti furono i dibattiti sulla natura della democrazia che, nella prima metà del secolo scorso, coinvolsero filosofi politici, giuristi e filosofi del diritto. Gli echi di quei dibattiti sono tutt’altro che spenti. Si può anzi affermare che, con il tramonto delle grandi ideologie, essi risultano più che mai vivi e attuali. L’incertezza che si manifesta ovunque circa il reale significato del termine “democrazia”, e il vecchio contrasto tra principio liberale e principio democratico, altro non fanno che acuire la contesa teorica. Senza scordare, tuttavia, che in questo caso la contesa teorica ha riflessi pressoché immediati sulla vita politica concreta.
Il nocciolo della questione si può in fondo ridurre a un sintetico quesito: l’essenza della democrazia risiede in elementi formali oppure in fattori sostanziali? Ogni volta che si propone una ricostruzione di tale quesito cercando una sintesi i risultati sono deludenti, al punto che la parola “liberal-democrazia” viene talora equiparata a un ossimoro.
E’ una situazione davvero strana, dal momento che le nazioni dell’Occidente non esitano a definirsi in modo spontaneo “liberal-democrazie”, contrapponendosi così automaticamente ai sistemi totalitari e autocratici che prevalgono in altre parti del mondo. E un altro quesito essenziale resta sempre sullo sfondo: ha davvero senso una ricerca che si proponga di scoprire in maniera definitiva la cosiddetta “essenza” della democrazia?
Si deve innanzitutto notare la problematicità di un rapporto che, almeno in Occidente, siamo portati a dare per scontato, vale a dire quello tra parlamentarismo e democrazia. Non viene di solito in mente che l’uno possa vantare una supremazia sull’altra (e viceversa). E invece gran parte del dibattito in questione verte proprio sulla prevalenza della democrazia sul sistema parlamentare, implicando con ciò che possa o addirittura “debba” esistere una democrazia non basata sul parlamento. E qui entra in gioco un altro slogan, ancor più importante del primo: “conferire sostanza alla forma”.
Di grande rilievo, a questo proposito, fu la polemica tra Hans Kelsen e Eric Voegelin. Il secondo accusava il primo di intellettualismo e formalismo fini a se stessi. Il pensiero kelseniano, sosteneva Voegelin, non era in grado di riflettere l’esistenza politica di un popolo poiché si occupava soltanto della forma costituzionale. Si trattava insomma del lavoro meramente accademico di un dotto lontano dal concetto di “esistenza” e tutto intento a formalizzare rapporti che trovano invece il loro significato soltanto nel “mondo della vita”. Della politica e della sua rappresentanza si deve invece avere una concezione “sostanziale”. E, se la sostanza entra in conflitto con la costituzione, è quest’ultima che deve lasciare il passo. Scrisse infatti Voegelin che “se un governo è solo rappresentativo nel senso costituzionale, un governante rappresentativo nel senso esistenziale prima o poi vi metterà fine, ed è certo possibile che il nuovo governante esistenziale non sia del tutto rappresentativo in senso costituzionale”.
Parole pesanti, che mettono in contrasto “norma” da un lato ed “esistenza” dall’altro. Parole con le quali un liberale non può concordare, soprattutto pensando all’agonia della Repubblica di Weimar e alla sua fine dovuta, per l’appunto, al fatto che le presunte ragioni sostanziali legate all’esistenza di un particolare popolo finirono col travolgere le norme fissate dalla costituzione, precipitando la Germania in un abisso cui solo la sconfitta militare pose termine.
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