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Editoriale

Esistono anche le “guerre culturali”

Esistono anche le “guerre culturali”. Quando si parla di guerra, viene subito in mente un conflitto come quello ucraino con bombe e missili che annientano eserciti e fanno strage tra i civili. Esistono però anche guerre “culturali” che possono rivelarsi altrettanto pericolose.

A introdurre il termine fu, nel 1991, il sociologo americano James Davison Hunter con il libro Culture Wars: The struggle to define America. L’autore, che insegna all’Università della Virginia, individuò con notevole anticipo i conflitti culturali che anni dopo avrebbero lacerato gli Stati Uniti e altre nazioni occidentali.

Una “guerra culturale” inizia quando un gruppo di persone considera coloro che hanno opinioni diverse dalle loro non più avversari con cui dibattere per convincerli della bontà delle proprie opinioni, bensì come “nemici” che vanno sconfitti e annientati.

La cultura si basa sempre sul dialogo, sulla possibilità di discutere in modo civile con chi non la pensa come noi. Tuttavia Davison Hunter, già parecchi anni fa, aveva capito che lo spazio per il dialogo si stava sempre più restringendo.

Non si tratta di una contrapposizione schematica tra comunisti e anti-comunisti, come quella in uso durante la Guerra Fredda. Oggi assistiamo invece a lotte all’ultimo sangue su temi come i diritti civili e le questioni di Gender. E pure la famiglia e i valori familiari diventano terreni di contesa in cui non si riesce più a trovare spazi di mediazione.

A farne le spese sono soprattutto i conservatori, intesi non solo come intellettuali ma anche come gente comune. Poiché i progressisti hanno conquistato l’egemonia nella scuola, nelle università, nelle case editrici e nei mass media, I conservatori vengono ostracizzati impedendo loro di parlare e, in molti casi, licenziati.

Ovviamente i conservatori, pur possedendo un minore potere culturale, reagiscono nello stesso modo. Abbiamo dunque gruppi contrapposti che escludono la possibilità di dialogare, il che rende estremamente difficile trovare un terreno d’intesa che prima esisteva.

Le persone, insomma, non si parlano più perché nemmeno riconoscono il linguaggio etico dell’avversario tramutato in “nemico” da sconfiggere, Gli esempi sono tantissimi. Basti menzionare le questioni che riguardano l’omosessualità oppure l’accoglienza dei migranti.

Proprio per questo, negli USA, si parla apertamente della possibilità di una “guerra civile” che potrebbe sfociare nell’aumento di atti terroristici, anche grazie alla facilità di acquistare armi. La cancel culture e il polotically correct sono diventati i segni più evidenti di tale situazione.

E’ ovvio che se il dialogo viene escluso dall’inizio, assisteremo a un progressivo prosciugamento della democrazia, Con le nuove generazioni che dimenticheranno il significato del termine “condivisione”.

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Michele Marsonet

Filosofo, Professore di filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane, Presidente del dipartimento di filosofia e vicerettore per le relazioni internazionali dell’Università di Genova

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