Malgrado tutto, e nonostante la crisi del Paese, l’italiano conserva una buona popolarità all’estero. Il fatto è facilmente spiegabile nelle nazioni in cui sono presenti grandi comunità di nostri connazionali adesso formate da immigrati di seconda o terza generazione. I giovani, in particolare nell’America Latina, sentono tuttora il richiamo della lingua d’origine e cercano di impararla sia in loco sia venendo in Italia con borse di studio.
Più difficile spiegarlo in luoghi lontanissimi da noi geograficamente e culturalmente come Cina o Vietnam. Tenendo conto della sua scarsa diffusione nel mondo, e quindi delle limitate opportunità lavorative che offre, l’attrazione per l’italiano può essere giustificata solo dal persistente successo della nostra cultura (soprattutto letteraria e musicale). L’attuale scarsità delle risorse pone tuttavia un problema di grande portata. Ovviamente sono molti i settori interessati, ma mi concentro sull’istruzione universitaria perché è quello di cui mi occupo dal punto di vista professionale.
E’ giustissimo il rilievo che la nostra attuale rete di formatori è del tutto insufficiente. I motivi sono tanti. I pochissimi atenei nazionali abilitati a impartire corsi d’italiano per stranieri lavorano in una situazione di quasi monopolio. Assai arduo ottenere dal MIUR il permesso di condurre tali attività, e non si comprende davvero il motivo.
Se una università che non fa parte di tale ristretta cerchia dimostra di possedere le competenze adatte e la volontà di investire risorse in questo campo, perché le si deve negare la possibilità di entrare nel mercato? Servirebbe a rendere meno asfittico il sistema, consentendo inoltre agli studenti stranieri che seguono i nostri corsi universitari di non concentrarsi in due o tre sedi, con tutti i problemi di sovraffollamento che ciò comporta.
Non solo. E’ noto che la Dante Alighieri, per quanto faccia miracoli con i pochi spiccioli concessi dai vari governi, è ampiamente sottofinanziata rispetto agli enti stranieri paragonabili. Si pensi, per citare solo i casi più noti, a Campus France, al British Council o alla tedesca DAAD.
C’è, in altri Paesi europei, il riconoscimento forte che la promozione della propria lingua e cultura nazionali rappresenta sia uno strumento di politica estera, sia la chiave per posizionarsi al meglio in un mercato dell’istruzione superiore cambiato in profondità a causa della globalizzazione.
Eppure, nonostante questi inconvenienti, gli studenti stranieri continuano ad affluire numerosi in Italia. I nostri atenei non sono poi così scarsi come dicono le classifiche internazionali (per lo più elaborate in Cina), e il fascino della lingua e della cultura italiane è sempre forte in ogni parte del mondo.
Se posso permettermi un suggerimento, bisognerebbe che i nostri italianisti puntassero meno sulla letteratura e più su insegnamenti mirati. Per esempio, italiano per economisti, per scienziati, per ingegneri etc. Lasciando stare gli atenei britannici che vivono di rendita grazie alla diffusione globale dell’inglese, è questo uno dei fattori che consente alle università francesi e tedesche di essere più “appetibili” rispetto a quelle nostrane.
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