RICORDANDO Dante Rossi portiere del Settebello imbattuto.
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La sera del 3 settembre 1960, il Settebello azzurro pareggia per 3 a 3 con l’Ungheria e conquista la medaglia d’oro nel torneo di pallanuoto delle Olimpiadi di Roma.
Dante era nato a Bologna in via Collegio di Spagna e cresciuto sportivamente nella piscina del Littoriale, tra le fila della Rari Nantes. La convocazione alle Olimpiadi giunse dopo il suo trasferimento a Genova nella Società Sportiva Nervi. Infine, Rossi, laureato in economia, con la conoscenza di cinque lingue, partecipò anche alle Olimpiadi di Tokyo del 1964, prima di avviare una brillante carriera professionale, soprattutto all’estero, per una importante compagnia petrolifera. Anche i suoi due figli pallanotisti hanno giocato in serie A.
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Non l´occhialuto e smilzo Livio Berruti, non un gancio di Cassius Clay e nemmeno la scalza marcia di Abebe Bikila. Per Bologna che ricorda, cinquant´anni dopo, l´Olimpiade di Roma del 1960, l´istantanea simbolo è quella di Dante Rossi, giovane portiere, allora 24 enne, della pallanuoto, primo della squadra azzurra a ricevere l´oro sul podio. Certo, Bulgarelli del Bfc e Lombardi della Virtus facevano magie con le rispettive nazionali, il primo inaugurando una stagione poi culminata con l´Europeo del ‘68 e il secondo mettendo paura agli dei americani. Medaglia di legno, però, per calcio e basket. Oro, invece, per la pallanuoto.
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Una bella mano (o meglio, due) la diede proprio Dante Rossi, custode imbattuto, solo un rigore contro la Jugoslavia a sverginarne le reti. «Quello del portiere è il mestiere più duro», spiega Rossi. «Reattività e riflessi, galleggiare non basta: bisogna uscir dall´acqua fino al costume». Imbattuto fu il Settebello in tutto il torneo, pure quel 3 settembre nella finale con l´Ungheria, tripudio offuscato dall´impresa di Berruti, nei 200 metri addentati appena quattro ore prima. «Ma ad applaudirci c´erano ventimila persone, e tutti cantarono l´inno di Mameli a squarciagola. Fece scalpore, era una delle prime volte in cui si sentiva il pubblico cantare».
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«A gennaio ´60, mi laureai con 110 e lode in economia: continuavo a far lo studente grazie alla borsa di studio della Shell. Che, a fine anno e dopo l´oro estivo, mi assunse. Studio, lavoro e sport, allora, facevano ancora rima». Lasciate le piscine nel ´70, Rossi, che ha due figli che hanno giocato nelle giovanili azzurre, ha girato il mondo per lavoro. «Parlo cinque lingue: inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese», snocciola orgoglioso. «E un po´ di russo. Facile, allora: i nostri avversari erano sempre i sovietici». E proprio ricordando nazioni e guerre sepolte dal tempo emerge il ricordo più succoso dell´olimpiade romana. «Se c´è una cosa che i Giochi di Roma hanno cambiato è il villaggio olimpico: fu il primo costruito per contenere tutti i partecipanti. Così, per la prima volta gli atleti dei due blocchi – sovietico e occidentale – vennero a contatto: l´aria di disgelo si respirava anche nello sport. Ci s´incontrava, si condivideva, si abbattevano stereotipi, anche se i russi erano sempre scortati da un commissario politico: temevano che scappassero».
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Il 10 settembre del 2010, ricevimento al Quirinale: Napolitano premia tutti gli olimpionici della storia italiana… «Nel ´60 ci ricevette il presidente Gronchi, e il capo del governo Fanfani ci regalò un orologio». S´era, d´altronde, in odor di centrosinistra: ogni piega dell´Italia – sociale, politica, industriale – mutava d´aspetto. Varcando la soglia della modernità, lo sport non fu da meno. Ricordando il trapasso, Rossi regala l´ultimo graffio, non un mesto sospiro. «Con quelle di Roma finirono le olimpiadi dell´agonismo amatoriale. Il professionismo ha portato vantaggi ma lo spirito d´un tempo s´è perso: la passione, non i soldi, lega e fa gruppo».