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XVII GIOCHI OLIMPICI – ROMA 1960 – IL DOVERE COMPIUTO (283a puntata) PALLANUOTO

– GIANCARLO GUERRINI (Roma, 29 dicembre 1939). A 21 anni, ha vinto la Medaglia d’Oro con la squadra composta da lui e da Amedeo Ambron, Danio Bardi, Giuseppe D’Altrui, Salvatore Gionta, Franco Lavoratori, Gianni Lonzi, Luigi Mannelli, Rosario Parmegiani, Eraldo Pizzo, Dante Rossi e Brunello Spinelli. Portacolori della SS Lazio Nuoto e della Pro Recco. Cavaliere al Merito della Repubblica, nel 2015 ha ricevuto il Collare d’Oro al Merito Sportivo. Scrittore, autore immaginifico e prolifico è stato quarto sia a Tokio nel 1964, sia a Città del Massico nel 1968, quindi, laureato in scienze economiche, Segretario Generale della Federnuoto e della Federscherma. Primo tesseramento con la S.S. Lazio, con la quale ha iniziato l’attività nelle giovanili, quindi nella Pro Recco. Vanta 103 presenze in nazionale nella pallanuoto, ma è stato anche azzurro di nuoto e campione italiano con la staffetta 4×200 s.l. Uno dei più classici giocatori, attaccante, ha vinto tre scudetti con la Pro Recco, è stato ad inizio carriera anche eccellente nuotatore come dimostrano i risultati in questo campo. Infatti nel 1959 ha vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4×200 alle Universiadi e quella d’argento ai Giochi del Mediterraneo a Beirut. Nel 1960 con il nuovo “Settebello” ha conquistato l’oro olimpico a Roma. Nel 1962 a Parigi è stato campione mondiale militare e nel 1963 a Napoli ancora vittorioso ai Giochi del Mediterraneo. Ha partecipato alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964, dove la squadra si è piazzata al quarto posto. Nello stesso anno con la Pro Recco, si è aggiudicato la Coppa dei Campioni. Nel 1967 a Tunisi è stato medaglia d’argento ai Giochi del Mediterraneo e l’anno successivo, alla sua terza Olimpiade in Messico, ancora quarto con il Settebello.
«Che bella l’Olimpiade a casa mia». Giancarlo Guerrini racconta Roma 1960
«Sono una specie di miracolo tecnico. A quindici anni non sapevo nuotare, a venti ho vinto le Olimpiadi». Parola di Giancarlo Guerrini, classe 1939, ex pallanuotista e medaglia d’oro ai Giochi di Roma del 1960. Unico atleta di casa capace di salire sul gradino più alto del podio in quell’edizione, la diciassettesima dell’Era Moderna, la sola organizzata nel nostro Paese. Da quel trionfo sono trascorsi sessant’anni.
Il ragazzo di Monte Mario, quartiere a nord-ovest della città, non ha molta confidenza con l’acqua. Un giorno va al mare a Ostia e rischia di annegare. Su consiglio del padre inizia a frequentare la piscina e dopo poche lezioni si scopre a suo agio. È rapido, ha una buona linea di galleggiamento e in breve tempo entra nel giro della nazionale. Attaccante d’ala, è un ottimo contropiedista, il più veloce di tutti. Tanto da essere scelto come riserva nella staffetta olimpica 4 x 200 metri di nuoto.
«L’allenatore Andres Zòlyomy ci prese nel ’57 e fece un grande lavoro. Era un ungherese “napoletanizzato”, perché nella città partenopea aveva conosciuto l’Italia e se n’era innamorato. Un genio, un precursore. Con lui girammo l’Europa. Dal suo Paese d’origine, per studiare i segreti dei maestri magiari, alla Jugoslavia, dove prendemmo calci e pugni, perché quei giocatori avevano qualità ma erano veri e propri “taglialegna”. Fu un progetto ambizioso, curato in ogni dettaglio. Negli anni capimmo la pallanuoto che aveva in testa».
La preparazione è al Centro Sportivo Acqua Acetosa, nel quartiere romano dei Parioli. Tre allenamenti al giorno: ore sette, dieci e trenta, più la partitella serale. I muscoli sono pesanti, fanno male. «A pranzo poggiavamo i gomiti sulla tavola, non riuscivamo a portare le posate alla bocca. Allora ci abbassavamo e mangiavamo muovendo il polso».
Il Settebello del 1960
Il momento si avvicina e il giovane scalpita, orgoglioso ma incredulo. «Vi rendete conto? Le Olimpiadi a casa mia. Ero come nel Paese delle Meraviglie. Mi guardavo allo specchio chiedendomi se sarei stato all’altezza. In fondo ero solo un ragazzo di vent’anni, che nuotava e seguiva il calcio».
Nulla viene lasciato al caso, neanche la dolorosa rinuncia alla cerimonia d’apertura del 25 agosto. Una giornata memorabile, culminata con l’accensione della fiamma olimpica da parte di Giancarlo Peris, mezzofondista di Civitavecchia, ultimo di 1198 tedofori. Proprio quella sera c’è l’esordio con la Romania. È l’inizio di un percorso netto, tutte vittorie a eccezione di un pareggio nella fase finale. È il 3 settembre 1960, quando il cloro della piscina olimpica si tinge d’azzurro e i nostri alfieri si mettono al collo la medaglia d’oro. Sono stati i più forti, hanno battuto giganti come Unione Sovietica e Ungheria, argento e bronzo.
La medaglia d’oro di Giancarlo Guerrini
L’edizione romana segna uno spartiacque nella storia dei Giochi. Più di 5300 atleti, 83 nazioni partecipanti, oltre 100 ore di diretta televisiva in 18 paesi del mondo. L’Italia si conferma anche sul campo. Con 13 ori, 10 argenti e 13 bronzi è terza nel medagliere. La Città Eterna spedisce cartoline di uno sport pulito, fatto di grandi campioni, ma anche persone semplici, genuine. Per le strade si incontra la squadra giapponese piegata sulla cartina, che studia i vicoli del centro, si vedono atleti che danno le spalle alla Fontana di Trevi, lanciando monete per i loro desideri. C’è anche un diciottenne pugile statunitense, che per rilassarsi prende a pugni colleghi italiani più esili. Muhammad Alì, al secolo Cassius Clay, trionferà nella categoria dei mediomassimi. Gli anni successivi quel carismatico ragazzone del Kentucky sarebbe diventato lo sportivo più influente del Novecento, capace di spostare le masse nella battaglia a favore degli afroamericani.
«La città era entusiasta, pulita e piena di turisti. Ogni cosa funzionava a meraviglia. Allo Stadio del Nuoto dovettero costruire altre tribune per aumentare la capienza a 35.000 persone. E durante le partite del Settebello c’era il tutto esaurito. Immaginate il tifo. Per non parlare del Villaggio Olimpico, un altro miracolo di organizzazione. Al centro trovavi una strada zeppa di ristoranti e locali sempre aperti. Volevi un piatto di spaghetti all’una di notte? Nessun problema. Certo, dovevamo porci un limite per via delle gare. E dopo mangiato tutti al “Club”, un grande salone dove gli atleti si incontravano. La statunitense Wilma Rudolph attirava su di sé gli sguardi. Con tre medaglie d’oro nell’atletica è stata l’indiscussa regina dei Giochi. Ma anche altri personaggi catturavano l’attenzione: dal sollevatore sovietico Yuri Vlasov, un omone muscoloso di centocinquanta chili, al nostro pugile Nino Benvenuti, con cui è nata una sincera amicizia. Era bello entrare in contatto con culture e tradizioni diverse. Pensate che avevo scambiato il mio cappello borsalino con il turbante di un indiano. Insieme al duecentista Livio Berruti l’ultima notte facemmo le ore piccole. Guidavo la mia Lambretta per le strade senza traffico, portando quello strano copricapo. Quante risate».
Ruggero Alcanterini

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