13 GIUGNO 2020
– La percezione è così netta, sgradevole, tale da indurre tristezza, tanto profonda quanto la sensazione del nulla, del senza rimedio. Certo, vite perdute e vite vendute. Mi dispiace, ma quelle di Giulio Regeni, massacrato in Egitto, di Gloria Trevisan e Marco Gottardi, la coppia di architetti carbonizzati nella Grenfell Tower a Londra, di Martina Rossi precipitata nell’orrore di una notte lontana dagli esami a Palma di Majorca o delle sette ragazze “Erasmus” stroncate dal sonno di un driver sulla strada per Valencia, associate ai molti opinabili esiti letali della pandemia da Coronavirus, del deragliamento sanitario rispetto a patologie diverse dal COVID 19, dei suicidi indotti dalla depressione economica, rischiano di essere di fatto vite vendute, dopo essere state irrimediabilmente perse. Basta fare mente locale, per capire che se eravamo impreparati per profilassi e presidi contro la pandemia, se i magazzini della protezione civile erano vuoti, se i nosocomi non erano attrezzati, il motivo era quello dei tagli cinici assestati negli anni alle spese per la sanità. Basta riflettere sulle vicende associate della vendita di elicotteri (all’India, durante la vicenda dei fucilieri Massimiliano Latorre e Salvatore Girone arrestati in Kerala) piuttosto che di fregate (adesso confermate per una commessa dall’Egitto) piuttosto che gli esiti giudiziari e giudiziali, con ridicole offerte di risarcimento per le giovani vittime, per giungere alla conclusione che, prima o dopo essere morti, il rischio che si corre è quello di essere comunque oggetto di contrattazione, di essere oggettivamente venduti. Quando Henri Georges Clouzot, delle Vite Vendute di Arnaud, ne fece un film da antologia era il 1953, Yves Montand straripava nella sua fisicità e dopo le bombe atomiche della Seconda Guerra i camion carichi di nitroglicerina facevano comunque impressione, il prezzo per la vita degli autisti era comunque quello di un pugno di dollari, ma loro erano soltanto i consapevoli protagonisti di una fiction.