Sessantuno anni fa, nello splendore del vecchio Stadio Olimpico, al Foro Italico, si inauguravano i XVII Giochi dell’era moderna con una straordinaria Cerimonia, premessa di un Evento unico, frutto dell’ingegno e dell’impegno di una generazione irripetibile di dirigenti, tecnici ed atleti, di cui ancora conserviamo grati la memoria. Non a caso, Marcello GARRONI, Segretario Generale, volle poi dare un titolo esemplificativo al Rapporto su quella edizione delle Olimpiadi: “IL DOVERE COMPIUTO”. Ieri, mentre continuava il doloroso travaglio della catartica ritirata degli “occidentali” dalla loro terra, gli atleti paralimpici dell’Afghanistan, che avrebbero dovuto competere a Tokio, Hossain Rasouli e Zakia Khoudadadi, erano assenti dalla Cerimonia d’Apertura per il ritiro della loro rappresentativa, per “causa di forza maggiore”. Da qui la decisione che la bandiera dell’Afghanistan venisse comunque presentata in Giappone, come “atto di solidarietà e pace”, secondo quanto dichiarato a inizio settimana dal Presidente del Comitato Paralimpico Internazionale (IPC), Andrew Parsons. Dunque, ecco un argomento sul quale lo stesso CIO dovrà prima che poi esprimersi, posto che – per sua natura e vocazione alla pace degli stessi Giochi – questo appare come un passaggio di prioritario impegno.
ROMA, I GIOCHI, IL DOVERE COMPIUTO E QUELLO DA COMPIERE Riflessioni di Ruggero Alcanterini
Gira e rigira la storia di Roma Olimpica rimane con un solo capitolo, aperto e chiuso tra il 25 agosto e l’11 settembre del 1960, almeno per quanto riguarda la fase moderna dei Giochi, reinventati dal Barone de Coubertin, peraltro dalle radici capitoline accertate, con tanto di stemma araldico degli antenati de Fredis, all’interno della Basilica di Santa Maria in Aracoeli. Il sessantesimo anniversario della XVII edizione dell’Evento, che sarà celebrato in data differita, come capitato agli stessi XXXII Giochi a Tokio – a causa della impattante pandemia da COVID – è forse l’ultima irrinunciabile occasione per respirare ancora un po’ di quella buona aria, se non beneficiare di quello straordinario clima, che concomitava allora con la mobilitazione di dirigenti formati e temprati dalle vicende della prima metà del Novecento, quindi nel pieno di una consapevole maturità, insieme ad atleti valenti e speranzosi collaboratori volontari, mediamente ventenni. Diciamo che si tratta dell’ultima ragionevole chiamata per i molti hanno vissuto quella esperienza epocale, che ha connotato l’Italia e il mondo, che ha lasciato il segno, divenendo una sorta di elemento di paragone sul quale misurare il prima e il dopo, non soltanto sotto il profilo sportivo. Rileggendo il mega “rapporto” di Garroni e Giacomini si comprende quale sia stata la dimensione dell’impresa, innovativa e moderna, pur essendo al di là da venire la rivoluzione del digitale e quant’altro e capitato nei sei decenni successivi. Io ne scrivo a ragione e mi sento anche di dire che lo spirito con cui si concorse alla realizzazione di quella intrapresa era ben diverso, rispetto a quello per altri accadimenti successivi, via via sino alle vicende in corso. Lo stesso spirito olimpico appare ora turbato, se non stravolto, da orientamenti e scelte che premiano interessi inconciliabili con quella purezza di principi, essenzialità e rigore di scelte, che portarono le “vestali del tempio” a lasciare fuori il povero Carlo Airoldi dalla Maratona di Atene, unico italiano che chiese di iscriversi nel 1896.
Adesso la rincorsa verso i podi e le medaglie per la nuova edizione olimpica in salsa nipponica, con affidamenti del tricolore e dichiarazioni degli affetti a livello istituzionale, coincide con la possibile “ripartenza” post COVID del Paese e questo concorre a distrarre energie e attenzioni dalla necessità che questo avvenga mediante un vero e proprio atto di coraggio nel governare e che si metta mano ad un serio progetto di prevenzione salute attraverso la pratica generalizzata dello sport, piuttosto che dell’attività motoria e l’assunzione di un corretto stile di vita. A tal proposito occorre ricordare che la stessa ideazione dei Giochi Olimpici Moderni fu effetto di un approfondimento sui valori sociali ed etici dello sport con il “Comité pour la propagande des exercices physiques dans l’éducation”, fondato dal Barone nel 1888. Dunque, il ruolo strategico di Roma 1960, non soltanto simbolico, perdura, dovendo completare un lavoro iniziato negli anni sessanta con i “policromi” Libri dello Sport, i Centri di Avviamento Sportivo “Olympia” e soprattutto con i Giochi delle Gioventù, capaci di una inusitata mobilitazione delle Amministrazioni Locali, su scala nazionale e quindi con una ricaduta di consistenza straordinaria sui territori e nelle articolazioni della società civile, in seguito mai più avvenuta. Con i Giochi di Roma 1960 era partito il percorso virtuoso dello sport paralimpico e la medicina sportiva aveva iniziato a fare la sua parte, stante la progressiva latitanza della medicina scolastica e l’esclusione imperdonabile dell’attività motoria dalle Scuole Primarie, pur a fronte della evoluzione dei docenti, passati nei decenni dal diploma alla laurea.
E la cultura e la storia dello sport, ciò che sembrava avere ottenuto una consacrazione, proprio ai XVII Giochi, con la strabiliante Mostra dal titolo “ARTE E SPORT”? Niente! Sopravvive con difficoltà la Biblioteca Nazionale dello Sport, che diversamente allargata a mediateca, con milioni di immagini e video, meriterebbe la dignità di una location prestigiosa. Intanto, il Museo, nazionale od olimpico, rimane nel libro dei sogni, pur essendo l’Italia in grado di realizzare il “Louvre” dello sport, con le mirabili opere che detiene, partendo proprio dal più antico stadio moderno del mondo, che è appunto quello di Domiziano, costruito nell’Anno 86 d.C., come quello di Olympia dedicato a Giove, custodito sotto Piazza Navona e tornato agibile grazie all’intervento privato, come capita adesso per il restauro del Colosseo.
Dunque, il DOVERE COMPIUTO, ma anche QUELLO DA COMPIERE, in nome e per conto di chi si è involato per Borea e ci ha lasciato il testimone di una staffetta incompiuta, visto l’esito negativo dei tentativi di ulteriore candidatura e la non adeguata gestione del lascito ereditario. Gli impianti olimpici dei XVII Giochi al Foro Italico e al Flaminio, un tempo in armonia con le visioni di Del Debbio e Nervi, sono ora in grande sofferenza per il degrado e il proliferare invasivo di sovrastrutture e cancellate aliene, mentre all’EUR permane l’orribile ferita inferta con la distruzione al tritolo del Velodromo di Ortensi.
Infine, il bisogno imperioso dei ricordi, per continuare a sognare e far sognare, tornando alle origini, alle premesse… Ad un bel pomeriggio del settembre 1953, allo Stadio Olimpico nuovo di pacca, con il mio grande indimenticabile amico d’infanzia, Tonino Ferro, in Tribuna Tevere, in compagnia del padre, Guglielmo, con un passato da astista nella Borgo Prati: “ Mi sentivo un privilegiato per via dei biglietti omaggio, che ci aveva fatto avere Marcello Garroni e quel pomeriggio ebbi la fortuna di assistere all’ultima straordinaria impresa di Nicolino Beviacqua, al secolo Giuseppe, trentottenne dai capelli grigi, piccolo e magro, che appariva quasi il padre di Giacomo Peppicelli, suo avversario, di quattordici anni più giovane. Io non sapevo che quel personaggio era stato il dominatore sui cinque e diecimila metri in Italia negli anni trenta/quaranta, che aveva vestito venti maglie azzurre e conquistato tredici tricolori, che aveva fallito la gara ai Giochi di Berlino nel ’36, come era toccato alla Testoni, ma che come lei si era riscattato agli “Europei” di Parigi, perdendo d’un soffio l’oro, al termine di un epico duello contro il campione olimpico e primatista del mondo Ilmari Salminen (30.52.4 contro 30.53.2). Io ero emozionatissimo nell’assistere a quella sfida di Beviacqua contro la legge del tempo, la prima e l’ultima per lui allo Stadio Olimpico, che lo vide in testa, poi superato da Peppicelli, quindi staccato, riprendersi e sferrare un attacco carico d’orgoglio, un vero ruggito da leone, al battere della campanella per l’ultimo dei venticinque giri, in un miracoloso crescendo, scaturente da quell’incredibile essere, all’apparenza così antico e minuto. Nicolino fu protagonista di una progressione impressionante, sul traguardo rimase dietro al suo erede per soli due decimi, ma per lui fu comunque un trionfo, tra l’entusiasmo della folla che fiutava le prime emozioni preolimpiche, all’ombra di Monte Mario. Tosi e Consolini se lo caricarono sulle spalle e gli fecero fare un giro d’onore, senza pari, unico, in un tripudio dal quale io rimasi segnato.” Di Beviacqua, classe 1914, partito per l’ultima corsa il 12 agosto 1999 – nella vita semplice operaio dell’ILVA e nello sport irriducibile alfiere della Fratellanza Ginnastica e del Trionfo Savonese – nell’immaginario è rimasto un vago ricordo, ma i suoi record resistettero sino al 1957 e al 1959, giusto quando nella sua Savona fu protagonista ancora una volta, come Ultimo Tedoforo e accese il fuoco nel Tripode propedeutico per quello di Roma 1960, quello salvato fortunosamente dalla rottamazione nel 1983, dopo ventidue anni di onorato servizio tra Giochi Olimpici e della Gioventù e che continua a rappresentare appunto il DOVERE COMPIUTO, non al Museo, ma allo Stadio del Nuoto, in paziente attesa della resurrezione.