La crisi della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta sta inducendo i governi occidentali a riscoprire la politica industriale. Ciò significa tornare a dare il giusto peso al settore manifatturiero, che ha subito un declino profondo su entrambe le sponde dell’Atlantico, favorendo così altri Paesi (e in particolare la Cina).
Del resto basta ascoltare i discorsi dei nostri politici per accorgersi che, quasi sempre, parlano di servizi, turismo e cultura, come se dall’industria manifatturiera si potesse in fondo prescindere. Se ne sono finalmente accorti anche i sindacati, che hanno capito quanto il declino dell’industria pesi sui livelli dell’occupazione.
Si era diffusa, a un certo punto, la tesi che “società avanzata” coincidesse con “società dei servizi”. Di qui la tendenza ad esternalizzare la produzione nelle nazioni più povere trasferendo sulle loro spalle, per esempio, i problemi dell’inquinamento. Poi, grazie alla pandemia e alla crisi delle catene di aprovvigionamento, si è capito che quella tesi è sbagliata. E la guerra in Ucraina ha aggiunto l’ultimo tassello.
Il caso più eclatante è quello dei semiconduttori, necessari per la produzione di smartphone, pc, tablet e pure delle lavatrici. Il settore era un tempo dominato dall’americana “Intel”, che a partire dal 1990 è passata dal 30 al 12% della produzione globale. Oggi il dominio spetta alle industrie taiwanesi come “Tsmc” seguite da quelle coreane come “Samsung”.
E’ ovvio che se la Repubblica Popolare occupasse Taiwan, l’intero Occidente si troverebbe in una situazione a dir poco drammatica. Gli Stati Uniti si stanno muovendo rapidamente per colmare il gap, e il Congresso Usa ha approvato in modo bipartisan il “Chips and Science Act”, provvedimento volto ad affrontare la competizione con i Paesi asiatici proprio nel campo dei semiconduttori. Il finanziamento ammonta a 280 miliardi di dollari, anche se i suoi effetti non saranno immediati.
Più lenta – come sempre – appare l’Europa, assai preoccupata per la probabile recessione della locomotiva economica tedesca. La Germania, negli ultimi decenni, ha puntato su un modello mercantilistico, esternalizzando tutto ciò che poteva. Andava bene finché la Cina era in crescita e di Covid ancora non si parlava. La crisi si è poi manifestata dovuta anche ad altre concause, per esempio la grande dipendenza energetica tedesca dalle forniture russe.
La Commissione Europea ha proposto un progetto innovativo volto, anch’esso, a diminuire la dipendenza per quanto riguarda i semiconduttori e a favorire la ricerca europea nel comparto. Ma Bruxelles, si sa, è piuttosto lenta e non ci si possono attendere i tempi rapidi adottati a Washington. Nel frattempo, sempre in Germania, i sindacati hanno capito che le automobili elettriche hanno un numero minore di componenti rispetto a quelle tradizionali, ammesso che si trovino batterie sufficienti per farle funzionare. Si parla di migliaia di esuberi alla Volkswagen, e questo causa ulteriori problemi al già debole cancelliere Scholz.
La morale della favola è evidente. Un’economia di servizi senza un settore manifatturiero forte ha poche prospettive, e l’eccessivo valore dato all’esternalizzazione e all’esportazione prima o poi presenta un conto salato da pagare. Sono temi fondamentali di cui, però, i partiti politici italiani, dopo l’assurda crisi del governo Draghi, parlano molto poco.
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