“Nell’affresco dell’Oratorio Ipogeo di San Michele, sotto la Rocca di Ardea, si trova la prima effige del “Santo Graal”. Tra i Santi c’è anche la Maddalena e l’Arcidiacono Lorenzo, il custode della Sacra Reliquia”. La straordinaria affermazione, a seguito di approfondita indagine storiografica è sostenuta dal dott. Giuseppe Cinelli, studioso di Religioni Antiche e Storia Medievale.
L’Oratorio Ipogeo di San Michele
Il piccolo santuario fu realizzato dai Monaci Benedettini modificando ed ampliando un preesistente Ninfeo Romano di epoca imperiale, ma la grotta era sicuramente utilizzata per il culto cristiano sin dai primi secoli dell’Era Volgare.
Il sito è rimasto seminterrato e in abbandono fino al 1964, quando in seguito alla segnalazione del custode alle antichità di Ardea, intervenne la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e fu scoperta una rete di cunicoli e la cavità con gli affreschi.
Monsignor Ferrùa, esimio archeologo del Vaticano, diresse le operazioni dello sterro e della prima sistemazione del monumento sotterraneo.
Secondo alcuni studiosi questo luogo costituisce “la prima testimonianza nel Lazio della presenza di cristiani in un periodo così antico.”.
Nell’arcosolio, ricavato in fondo alla grotta, sono dipinte figure sacre di pregevole fattura.
Al centro una Madonna in trono con Bambino attorniata da Santi, considerata la prima realizzazione nel Lazio di questo topos iconografico.
A sinistra un espressivo busto di Pantocrator Benedicente; a destra un Giovanni Battista indica in alto un clipeo nel quale l’Agnus Dei è rivolto a guardarlo, dal suo costato zampilla un fiotto di sangue rosso che viene raccolto da una coppa abbellita da gemme: non c’è alcun dubbio è il “Santo Graal” della Vulgata Provenzale!
Le fonti letterarie
Chretien de Troyes, un chierico che visse presso le Corti feudali della Provenza nel XII secolo, morì nel 1190 lasciando incompiuta la sua maggiore opera Le Roman de Perceval ou le conte du Graal.
A lui seguì Wolfram von Eschenbach, cavaliere alla corte di Turingia, il quale intorno al 1210 compose il Parzival.
Il primo poeta non precisa quale forma abbia il Graal. Nel racconto del banchetto dove viene descritto l’episodio della sua apparizione tra i convitati, dice semplicemente “un graal tra le sue due mani / una damigella teneva” e si limita ad accennare alle gemme incastonate nel misterioso oggetto d’oro che emana una luce abbagliante.
Il secondo scrittore afferma che è una pietra magica, il lapis exillis, la quale in virtù della sua sola presenza materializza sulla tavola ogni cosa che si possa desiderare e non solo.
Altri poeti dopo il 1191 si cimentarono con l’incompiuto di Chrétien: Wauchier de Denain, Manessier e Gerbert de Montreuil ed è in queste continuazioni che il Graal inizia a configurarsi come “Santo Calice”.
Ma è Robert de Boron, nel suo poema Joseph d’Arimathie composto tra il 1170 ed il 1212, a precisare che il Graal costituisce la coppa utilizzata nell’Ultima Cena dal Nazareno e come Giuseppe di Arimatea, recuperatala dopo il banchetto, vi raccoglie le gocce di sangue sgorgate dalla ferita nel costato prima della Deposizione.
Il medesimo Giuseppe in seguito l’avrebbe condotta con sé nel viaggio per mare dal Medio Oriente alla Provenza e dalla Francia nelle Isole Britanniche, fondando in questi luoghi la prima Chiesa cristiana a Glastonbury: la leggendaria Avalon del futuro Re Artù.
Un’altra versione afferma che fu Myriam di Magdala, la famosa Maddalena, a condurre il sacro boccale, sempre per mare, dall’oriente fino a Marsiglia in compagnia dell’Arimateo e tra gli altri: suo fratello Lazzaro, sua sorella Marta, la serva Martilla, Massimino e Cedonio. Questa tradizione è sostenuta nella “Vita di Maria Maddalena”, opera pubblicata intorno al IX secolo da Rabanus Maurus Arcivescovo di Mainz, l’attuale Magonza.
In seguito, con Jacopo da Varagine, nella sua “Legenda Aurea” scritta nel 1260, il racconto viene ampliato e impreziosito di dettagli.
Ma la rilevanza e la continuità del mito Maddalena/Graal durante il Medioevo, viene attestata anche dalle numerose effigi della “compagna” di Gesù che la ritraggono con bicchieri e pissidi di ogni tipo, e dalle scene agiografiche effigiate in numerose Chiese rupestri lungo gli itinera dei pellegrinaggi; mirabile il ciclo di affreschi di Giotto nella Capella di Assisi a lei intitolata.
Le fonti storiche
Rogeri De Hoveden, un cronista presente alla Terza Crociata, nella sua Chronica ci riferisce che Riccardo I , il ventisei agosto del 1190, transita nel territorio di Ardea. Secondo quanto riportato da alcuni studiosi un altro anonimo cronista al seguito del Re Inglese precisa che questi “pronato pregò con devozione presso il santo luogo…“.
Il Sovrano raccogliendo l’invito del Papa, Gregorio VIII, ha prestato giuramento di difendere i Sacri Luoghi della Terra Santa.
E’ salpato con il suo esercito dal porto di Marsilha, l’attuale Marsiglia, per partecipare al Terzo Pellegrinaggio Armato.
Intende recarsi a Messina e di là congiungersi con il resto delle armate dell’Europa cristiana condotte via terra dall’Imperatore germanico Federico I detto il Barbarossa, dal Re di Francia Filippo Augusto e da Filippo di Fiandra.
Ma perché il Re inglese, ormeggiata la flotta nel porto di Roma ed incontrato il Cardinal Ottaviani che il Papa ha inviato ad accoglierlo, invece di recarsi ad omaggiare il Pontefice nella vicina Capitale, percorre la Via Severiana per “quater viginti miliaria” e nei pressi di Ardea si attarda a pregare in un “sacro loco”?
Che cosa c’è di così importante in quella zona paludosa a sud del Tevere, allora più che altro famosa per la insalubrità degli acquitrini e la voracità dei pappataci?!
Dobbiamo arguire che nei dintorni della Rocca rutula è ubicato un sito sacro che esercita su Riccardo un richiamo preminente e più eccellente anche delle Sacre Reliquie ossequiate dai fedeli nelle Quattro Basiliche e nelle Sette Chiese della Capitale; un “Genius Loci” talmente potente da distogliere il Sovrano dalle urgenze della Crociata e spingerlo a snobbare l’incontro con il neoconsacrato Clemente III!
Come è venuto a conoscenza il Re inglese della straordinaria presenza? Chi e per quale riservato ministero lo ha chiamato e convinto all’insolita deviazione?! Quale importante testimonianza misterica viene custodita al suo interno?
Che cos’è il Graal
Per la Storia e la Religione il Graal è il calice che Yeshua utilizzò nell’ultima cena: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, come riportato nella maggior parte dei documenti del Nuovo Testamento, Marco, 14, 24, Luca, 22, 20, Matteo, 26, 28, Paolo di Tarso, Corinzi, 11, 25.
Ciò che però, sin dal medioevo, ancora affascina il nostro immaginario collettivo è l’alone di misterico e di epico nel quale lo ha avvolto la leggenda della Vulgata Cavalleresca.
La Saga del Graal affonda le proprie radici ben più lontano, sia nel tempo che nello spazio e nelle maniere più disparate e non possiamo qui approfondire la appassionante ma prolissa dissertazione che inevitabilmente confonderebbe il neofita: l’essenza del messaggio del Graal attraversa l’intera storia dell’umanità.
Il primo episodio si verifica, pensate, nell’Eden, in questa occasione il Graal è identificato con lo smeraldo che cade dalla corona di Lucifero durante la battaglia tra gli Angeli del bene e gli Angeli del male: la gemma preziosa viene trovata da Adamo. Ma torniamo ad Ardea.
Il Graal e l’Oratorio Ipogeo di San Michele ad Ardea
La modesta cavità che attualmente accoglie l’ipogeo cristiano in precedenza è stata utilizzata come santuario rutulo e successivamente come ninfeo romano.
Si trova in un pianoro anticamente occupato da un esteso insediamento abitativo.
Non c’è alcun dubbio che si tratti di un genius loci frequentato per millenni dalle popolazioni locali del Latium Vetus, un’area ben definita con una vocata tradizione misterica per le divinità delle sorgenti.
E’ stato infine il sincretismo religioso, valorizzando la sua naturale connotazione idrica, a recuperarlo e consacrarlo al culto cristiano.
L’”Oratorio” in origine era una cisterna che raccoglieva e smistava attraverso una complessa rete di flussi e drenaggi l’acqua proveniente dalle sorgenti per soddisfare le esigenze idriche di una popolosa comunità.
Questo assunto è stato subito sostenuto da Mons. Antonio Ferrùa, l’archeologo del Vaticano che eseguì e diresse nel 1964/65 per conto della Pontificia Accademia di Archeologia lo scavo ed i lavori di sistemazione in loco.
Il religioso era convinto che il pianoro, ora completamente invaso da ville, capannoni, e piscine, ospitasse prima della conquista romana, il primitivo insediamento Rutulo difeso dal vicino aggere di Casalazzara. In questo, già dal VI secolo, si apriva l’antica porta dalla quale iniziava il tratturo per raggiungere gli insediamenti degli altri popoli Latini confinanti.
Ardea nel periodo medievale
Le fonti storiche ci informano che Gregorio VII nel 1081 con una Bulla pontificalis affida ai Monaci di Ardea la metà del “castrum Ardeae cum rocca sua et turre maiore”.
L’autorevolezza politica e diplomatica di questo Pontefice e la sua decisione di donare ai Monaci Benedettini la proprietà del territorio ci confermano la funzione strategica della Rocca come baluardo fortificato posto a confine delle opulente Abbazie in crescente antagonismo con lo Stato Pontificio ed ora filoimperiali.
Nel XII secolo l’ex benedettino Anacleto II, ora antipapa, con una seconda bulla concede nel 1130 “la civitas ardeae per intero ai monaci benedettini di San Paolo”. La donazione è formalizzata in occasione del primo Concilio di Melfi, dove viene investito Ruggero II d’Altavilla del titolo di Rex Siciliae.
Non si tratta di un atto puramente benevolo: in questo caso la Rocca ardeatina rappresenta un valido presidio di confine per gli Altavilla, la potente Casata Normanna che ormai detiene il dominio del meridione e minaccia lo Stato Pontificio. I Benedettini di Ardea assumono un ruolo determinante nel controllo degli irrequieti Castelli Romani, dove sono asserragliati i sostenitori del Papa riconosciuto da tutti i Regnanti d’Oltralpe.
La medesima Capitale, contesa tra gli opposti fautori dei due Papi è divenuta insicura per ambedue gli antagonisti e a breve Innocenzo II sarà costretto a rifugiarsi in Francia.
E’ in questo periodo che sotto la protezione del potente Antipapa per i frati inizia un nuovo periodo di prosperità.
Viene eretta la prestigiosa Chiesa di San Pietro ed eseguita nell’Oratorio probabilmente l’ultima versione degli affreschi: la più significativa e messianica.
Il Sacro Loco
Alcuni studiosi sostengono che il “sacro loco” dove si prostra a pregare il Re Inglese Riccardo I va identificato con il “tenimentum ecclesiae Sancti Laurentii” a cui si accenna per la prima volta in una Bulla pontificalis del 1074 di Gregorio VII.
Questa doveva essere la “Chiesa paleocristiana di Tor San Lorenzo situata in prossimità del porto dell’Incastro o la Cappella annessa o interna alla Torre San Lorenzo dei Colonna, posizionata sul litorale nord e modificata in seguito su progetto Michelangiolesco”.
Ma questi due monumenti non sono più rintracciabili, né va trascurato che indicazioni come “torre”, “chiesa” e “loco” nel medioevo non sono sinonimi: il cronista ufficiale al seguito del Re avrebbe specificato la tipologia dell’edificio e della sua destinazione cultuale, se non altro per qualificare l’evento riportato.
Solamente nel caso di un piccolo santuario o eremo come l’Oratorio ipogeo, sicuramente interdetto alle masse dei fedeli e riservato ai castigati e raccolti cerimoniali iniziatici della locale Comunità religiosa, il termine generico di loco è coerente e adeguato.
L’effige del Graal nel ciclo affrescale dell’Oratorio.
La presenza del Graal nell’affresco dell’Oratorio Ipogeo di Ardea richiede una lettura ben più profonda della sua pregevole ma superficiale analisi pittorica.
La grammatica e la sintassi dei simboli esoterici non rispettano i canoni della scienza archeologica e della storia dell’arte, anzi debbono eluderne le regole in maniera scaltra e smaliziata se vogliono riconoscere e focalizzare indizi di particolare significato misterico camuffate e criptate nelle allegorie del dipinto.
Al centro della volta dell’arcosolio c’è un inconfondibile topos iconografico: l’Agnus Dei che, in questo caso, sanguina in un calice posizionato ai suoi piedi.
Le Sacre Scritture del Vecchio Testamento e l’iconografia sacra cristiana del primo medioevo sono sature di citazioni e rappresentazioni del Santo Agnello.
Non è invece frequente che questi sia affiancato dalla coppa con il vino/sangue dell’ultima cena.
Il motivo è che soltanto nel Nuovo Testamento questo topos acquisisce un significato salvifico di particolare importanza, assommando la trasposizione allegorica di due precisi eventi strettamente legati al dogma della morte/resurrezione dell’uomo/dio Gesù Cristo: la Transustantazione dell’Ultima Cena e la ferita nel costato inferta dalla lancia del soldato romano Longinus.
Tutti gli Apostoli dei Vangeli Canonici attestano ed evidenziano questi episodi con formulazioni similari, ma è soltanto nel Vangelo apocrifo di Nicodemo, dove si afferma come Giuseppe di Arimatea recupera la coppa dell’ultima cena e la utilizza per raccogliere il sangue della Crocifissione, che il tandem Agnello/Calice assume il potere di redenzione e di grazia per tutti i Cristiani di ogni tempo a venire.
Se concordiamo con la datazione acclarata dalla maggior parte degli studiosi, gli affreschi sopravvissuti vennero eseguiti dopo la citata Bulla pontificalis di Anacleto II e quindi a metà del XII secolo. Ciò vuol dire che il famoso clipeo istoriato sotto La Rocca contiene la prima esecuzione pittorica dell’Agnus Dei che sanguina in un calice: il Santo Graal!
E questo prima che Chretien de Troyes lasciasse incompiuto il suo capolavoro letterario, nel quale comunque ancora non si parla della coppa salvifica, e dei successori vati della Vulgata Cavalleresca, i quali, alla sua dipartita, si cimentarono a completare il suo “Le Roman de Perceval ou le conte du Graal”.
Forse i Benedettini conoscevano l’opera di Boron: il poeta che per primo comincia a parlare del Santo Calice?
Sarebbe interessante approfondire l’argomento, ma la questione è un’altra.
Il viaggio del Graal
Abitualmente i cristiani ed i guerrieri crociati di ritorno dai Loca Sancta si imbarcavano a San Giovanni D’Acri e sbarcavano nei porti della Puglia: Bari, Brindisi, Barletta. Da questi raggiunta la Via Francigena attraverso la capillare rete di diramazioni degli antichi Itinera seguiti dai viatores sin dai primi secoli dell’Era Volgare, attraversavano l’Europa e raggiungevano le città Sante e le grandi Cattedrali del mondo cristiano.
Il culto micaelitico univa il Gargano a Saint Michel sin dal V secolo.
All’inizio i centri religiosi nascevano vicino a grotte sacre, lungo i duemila chilometri di strade, sentieri e tratturi, dove l’Arcangelo e le sue sorgenti purificatrici erano venerate dai fedeli. Chiese rupestri ed eremi erano affrescati con iconografie di fatti ed eventi riportati dalle Sacre Scritture e dai Vangeli.
In seguito vennero costruiti imponenti monasteri e santuari dove i pellegrini potevano pregare e si rifocillavano, barattando durante il pellegrinaggio la protezione e l’accoglienza che ricevevano da monaci e religiosi con preziosi manoscritti e reliquie di dubbia provenienza.
L’Appia e la Casilina che attraversavano l’Appennino fiancheggiavano e intersecavano la Via Francigena e una diramazione di quest’ultima raggiungeva sicuramente la litoranea Via Severiana che si allungava fino al Porto di Ostia.
Una fonte riferisce che “Lo stesso Pietro, principe apostolo, transitò per Ardea giungendo via mare dal Porto di Ostia….”.
Ma all’interno dei centri di culto disseminati lungo l’itinerario che attraversava la Campania furono realizzate importanti iconografie, come nella Basilica Paleocristiana di S. Felice a Cimitile vicino Nola, nel Complesso monumentale di Santa Sofia a Benevento, nell’Abazia di Fossanova. Adeguandosi all’evoluzione ed ai cambiamenti della tradizione cristiana gli artisti hanno immortalato Personaggi e simboli esoterici conosciuti e cari alle folle dei viatores e dei Cavalieri Crociati: Agnus Dei, Maddalene recanti pissidi e incensieri, Calici e Vir Dei come il Battista, l’Arcangelo Michele, Santi Sauroctoni.
L’Oratorio, come riportato in una citazione del XVI secolo era titolato a San Michele e non è da escludere che in origine fosse ispirato al collaudato culto micaelitico che ha improntato la maggior parte delle chiese rupestri e degli eremi disseminati lungo la Via Francigena.
La realizzazione dell’ultimo ciclo affrescale dell’Oratorio si può collocare nella seconda metà del XII secolo, sicuramente dopo il 1130, anno nel quale la Bulla dell’antipapa Anacleto II, in occasione del Concilio di Melfi, concede “per intero la Civitas Ardeae” alla locale Comunità dei monaci benedettini.
E’ in seguito a questa formale donazione infatti che i religiosi acquistano potenza e ricchezza, completano la grande Chiesa di San Pietro e ampliano il primordiale impianto conventuale in un prestigioso complesso abadiale.
Purtroppo di questo insediamento monastico medievale non rimane più traccia: tutto giace sepolto sotto i resti del monumentale palazzo rinascimentale degli Sforza.
Quanto premesso suggerisce che nell’Oratorio l’antico culto micaelico viene rielaborato nel remake proposto in occasione dei Pellegrinaggi Armati e che il clipeo istoriato sotto La Rocca potrebbe contenere la prima rappresentazione pittorica del nuovo topos misterico maturato nel corso delle prime Crociate.
Il sangue rigeneratore del Cristo/Agnus Dei si raccoglie nella nuova reliquia/calice: il Graal!
I Topos iconografici del ciclo affrescale
Nella raccolta nicchia che accoglie l’arcosolio affrescato sono effigiati: un grande mezzobusto di Cristo Pantocratore, una Madonna assisa in trono col bambino in grembo, due Sante e tre Santi di evidente significato escatologico, l’Agnus Dei che stilla sangue in un calice e, separati in un modesto riquadro con cornice rossa, due Sauroctoni intenti a conficcare le loro lunghe aste in una delimitata sezione pittorica purtroppo deturpata da vandali o iconoclasti.
Il tutto è percorso da un’effusione di simboli, ben noti all’iconografia esoterica del Medioevo, che come una corrente protettiva attraversa l’intero ciclo pittorico.
I personaggi raffigurati sono distinti e circoscritti da linee prevalentemente di colore rosso e nero, spesse o fini, a volte dentellate, come se l’artista volesse definire in precisi registri il precipuo carattere esegetico e la specifica funzione apotropaica di ognuno dei rappresentati.
In seguito alle modifiche strutturali eseguite nei secoli e ad alcune disastrose escoriazioni non tutte le Figure sono identificabili con certezza. Non possiamo escludere che alcuni danneggiamenti siano stati procurati intenzionalmente per motivi escatologici.
Sparsi ovunque ci sono nodi di Salomone, pigne, stelle a otto punte, ghirigori fitomorfi, riquadri con ideogrammi e logotipi cari all’iconografia delle Crociate e degli Ordini Cavallereschi, in particolar modo i Pauperes Commilitones Christi Templique Salomoni, meglio conosciuti come Templari.
La conferma che le raffigurazioni eseguite nel sito ardeatino sono collegate al tema delle Crociate è ribadita da alcune effigi di palme geometriche, stilizzate in segmenti triangolari o trapezoidali variopinti, disseminate sulla superficie affrescata.
Questi archetipi del simbolismo medievale si notano anche all’interno del riquadro distaccato e isolato nel quale si incontrano i due “Sauroctoni”.
Ci sono due particolari dettagli però che legano indiscutibilmente la coppa di Ardea alla leggendaria Saga: la forma e la presenza di gemme che decorano il Graal.
L’effige ardeatina del Calice con pietre preziose incastonate nella base ricalca, o anticipa, un modello riprodotto nella maggior parte delle tipiche iconografie del XII secolo. Questo abbellimento si evidenzia anche nel supporto prezioso medievale che sostiene le calotte di agata e calcedonio nei due manufatti di Valencia e di Lèon: gli unici graal che riteniamo cronologicamente compatibili per fattura e tipologia con la vicenda del Cristo.
Ma non dimentichiamo che la raffigurazione di Ardea precede la prima notizia certa del Santo Caliz spagnolo di almeno un secolo e per quanto riguarda il campione castigliano è ancora in corso di studio la veridicità delle fonti storiche e letterarie di provenienza islamica per definire la datazione del reperto.
Tutte le numerose icone che ritraggono il Santo Agnello insieme ad un calice
sono posteriori al topos dell’Oratorio di San Michele ed anche nelle rare raffigurazioni non è evidenziato l’elemento “sangue”.
I due personaggi esoterici: l’Arcidiacono Lorenzo e Myriam di Magdala
Più discosti dal centro dell’arcosolio, separati da nette linee rosse ci sono due Santi. A destra una figura di fattura bizantina osserva ascetica, elegantemente vestita, il visitatore.
Non può essere un alto dignitario ecclesiastico o un sovrano: il suo aspetto è giovanile ed i tratti del volto sono delicati e pudichi.
Il fatto che la testa è contornata da una aureola non esclude che possa trattarsi di un illustre personaggio laico: il nimbo oltre alla santità connotava anche la rilevante sacralità del soggetto e del suo operato.
Nella figura c’è un dettaglio, opportunamente segnalato dal Ferrùa nel ’60 ma che ora non si distingue quasi più, determinante per identificare il personaggio: “regge la mano sinistra velata con la clamide una capsella di notevoli dimensioni, come quelle da incenso, particolare che ci rivela qui un santo diacono Stefano o Lorenzo”.
Con il termine capsella possiamo intendere: porta incenso, pisside, ma anche coppa e reliquia.
Non c’è alcun dubbio: si tratta dell’Arcidiacono Lorenzo, originario della città spagnola di Huesca nella zona dei Pinerei, al quale nel 258 d. C. il Papa Sisto II affidò preziose reliquie durante la persecuzione dell’imperatore Valeriano.
Probabilmente si trattava di sacri reperti portati dai primi pellegrini cristiani. Quest’episodio è raccontato nella “Vita di San Lorenzo”, opera agiografica scritta da San Donato nel secolo VI.
Un’altra versione sostiene che il Santo Graal fu condotto a Roma personalmente da Pietro. Il calice faceva parte delle stoviglie messe a disposizione dei commensali dalla famiglia di Marco l’Evangelista in occasione dell’ultima cena. Questi si recò nella Capitale con Pietro e ne trascrisse nel suo Vangelo le testimonianze e gli insegnamenti. E’ quindi plausibile che sia stato proprio Marco a consegnare il Graal al primo Papa il quale durante il suo ministero lo usò per officiare l’Eucarestia e poi lo affidò nelle mani del successore Lino.
Chi sostiene questa tesi fa riferimento alla “Preghiera Eucaristica” pronunciata dai primi Vicari di Cristo, la quale così precisava: “Dopo la cena, prese questo glorioso calice” (hunc praeclarum calicem). La puntualizzazione dimostrerebbe che all’epoca il manufatto veniva considerato e venerato come la specifica coppa usata da Gesù nel giovedì santo.
Nell’affresco dell’Oratorio di Ardea l’Arcidiacono nasconde un incensiere, o meglio un reliquario, sotto la veste, ma il suo atteggiamento, anche se serafico è sospettoso, sembra quasi voler celare ai visitatori qualcosa di … imbarazzante!
E se sotto le spoglie del Santo il pittore avesse camuffato un personaggio realmente esistito nel periodo della realizzazione affrescale? Uno dei primi Cavalieri tornato dalle Crociate con la “Sacra Reliquia” che verrà poeticamente trasfigurato e immortalato nell’opera di Chretien: il “Puro di cuore”!
Il personaggio femminile dipinto a destra del trono non è una figura allegorica, come sostenuto dal Ferrùa, è la Maddalena. Se osserviamo bene tiene in mano una specie di pisside, un distintivo accessorio frequentemente riprodotto nelle iconografie della Santa di Magdala, che per la sua forma richiama il Graal.
Conclusioni
“Mi auguro che sia ora palese che l’affresco dell’Oratorio ipogeo di San Michele ad Ardea costituisce una importante testimonianza storico/religiosa del movimento Cristiano e del periodo delle Crociate – dichiara il dott. Giuseppe Cinelli – Il nostro approccio non si è limitato ad evidenziare la straordinaria unicità di questo capolavoro documentale, ma ha cercato di individuare significativi indizi per una futura ricerca archeologica e scientifica“.
“Gli spunti per approfondimenti di studio e di riflessione – aggiunge lo studioso – interessano la politica e la cultura della storia medievale, le affinità ed le divergenze tra le due Religioni che ancora dividono i popoli” .
“Il Graal di Ardea ci attende, epico e intramontabile, avvolto come da sempre nel suo misterico fascino millenario, con la Maddalena, il Battista, i suoi enigmatici Cavalieri, pronto a prodigare ad ogni Puro di cuore il proprio messaggio salvifico ed illuminante” conclude il dottor Cinelli .
Massimiliano Gobbi
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