Corrado Augias ha scritto il suo nuovo “I Segreti di…”, raccontando questa volta di Istanbul, che è erede in linea diretta di Costantinopoli e di Bisanzio. Corrado, parlando della sua nuova opera ha voluto ricordare gli approfondimenti fatti dal grande Edmondo De Amicis, giornalista e corrispondente di guerra, giramondo e scrittore raffinato, riflessivo, ispirato, prima ancora che quello del conclamato “Cuore”, destinato ai ragazzi… Anche io voglio fare riferimento a quello che viene considerato il miglior libro scritto su Istanbul nel 1800, best seller per anni e forse la migliore opera di Edmondo, dedicata peraltro ad un territorio da sempre ed ancora oggi da considerarsi come la cruna dell’ago, dove passano i flussi antropici con tutto quello che coinvolgono dall’Asia all’Europa e viceversa. Quello che scrisse De Amicis nel 1874 e poi pubblicato da Treves nel 1877, di cui conservo una preziosa copia, era appunto intitolato Costantinopoli, come omaggio a alla Città originata dall’Imperatore Romano, che avviò il cambiamento del mondo, fatto di cui ancora oggi stentiamo a comprenderne conseguenze e valori, nel bene e nel male. Comunque, il fascino, la suggestione, la genialità di quanto scrisse De Amicis la voglio rappresentare attraverso un significativo passaggio del capitolo intitolato Il Ponte: “Per vedere la popolazione di Costantinopoli bisogna andare sul ponte galleggiante, lungo circa un quarto di miglio, che si stende dalla punta più avanzata di Galata fino alla riva opposta del Corno d’Oro… l’una e l’altra riva sono terra europea; ma si può dire che il ponte unisce l’Europa all’Asia… Stando là, si vede sfilare in un’ora tutta Costantinopoli. Sono due correnti umane inesauribili, che s’incontrano e si confondono senza posa dal levar del sole al tramonto… E’ un musaico cangiante di razze e di religioni che si compone e si scompone continuamente con una rapidità che si può appena seguire collo sguardo. E’ bello tenere gli occhi fissi sul tavolato del ponte, non guardando altro che i piedi: passano tutte le calzature della terra, da quella d’Adamo agli stivaletti all’ultima moda di Parigi: babbucce gialle di turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d’israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori de cavallari dell’Asia minore, pantofole ricamate d’oro, alpargatas alla spagnola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in maniera che se ne guarda una, se ne intravvedono cento”.
Ruggero Alcanterini
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