Avete provato mai ad entrare in una delle chiese del centro storico a Roma? Luoghi di meraviglie e tesori dell’arte, ancorché di silenti testimonianze della nostra storia e della nostra cultura. Si, simboli religiosi resi preziosi da migliaia di anni di trasmutazioni dal pagano al cristiano, originali testimoni di pietra di quello che fu e in parte ancora è lo straordinario splendore di un Paese che fu impero, regni, ducati, repubbliche e comuni, entità territoriali su cui ancora sopravvive il sistema Italia, in grande parte abbandonato alla mercé di ladri, vandali e potenziali terroristi. Che senso ha lasciare aperte le porte delle chiese con i loro sancta sanctorum, se non ci sono custodi in grado di difenderle e peggio fedeli vigili sul valore morale dei luoghi di culto, dove si trovano le spoglie di chi ci ha preceduto con valore, le stesse reliquie dei santi cattolici. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe capiterebbe a qualcuno di noi se ci azzardassimo a violare moschee e immagini sacre all’Islam, anziché renderle possibili nel nostro territorio, dove la libertà di culto è legge. La risposta terribile, negli ultimi tempi, è giunta cruenta sino alla redazione parigina di Charlie Hedbo, al Teatro Bataclan, piuttosto che a casa di scrittori e vignettisti sparsi per il mondo, nei luoghi di vita corrente, d’incontro per la società civile nel mondo. Quando a ruoli ribaltati mostriamo disponibilità alla comprensione, questo rischia di diventare paradossalmente un aspetto patologico dei nostri comportamenti. Ieri è stato finalmente arrestato il devastatore ghanese delle chiese romane. Si sono visti i video che documentano la pericolosità, la determinazione, la non gratuità di tanta cattiveria, ma anche la desolante assenza di ogni difesa preventiva, del deserto all’interno delle nostre chiese, della mano libera lasciata a chiunque voglia distruggere il nostro patrimonio e la nostra identità. Dopo aver fatto strame di statue di santi, candelabri e crocefissi in quattro diverse chiese di Roma (Santa Prassede, San Martino ai Monti, San Vitale e San Giovanni) ci è decisi a fare sul serio e a fermare colui che poteva essere e fare di tutto, anche uccidere. Diciamo che la sensazione è quella si tratti di test, di prove generali affidate a personaggi apparentemente fuori di testa, come l’altro ghanese picconatore pluriomicida a Milano nel 2013 e condannato con lo sconto a vent’anni di carcere e tre di cura. Eppure, tornando alle chiese, quali antiche arche della nostra memoria e della nostra cultura, in buona parte sono nella disponibilità del F.E.C., Fondo Edifici di Culto, che è un fondo immobiliare italiano gestito dalla Direzione Centrale per l’Amministrazione del Fondo Edifici di Culto, organo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno. Il precedente del F.E.C. era il Fondo per il Culto, nato nel 1866 per la gestione del patrimonio immobiliare della Chiesa incamerato dal Regno d’Italia. Questa storia somiglia terribilmente a quella dei beni confiscati alla mafia, lasciati regolarmente in stato d’abbandono, piuttosto che a quella degli impianti sportivi spesso ridotti a ruderi o cattedrali nel deserto, come quelli tornati dal CONI alla gestione di Roma Capitale e di cui lo Stadio Flaminio è divenuto la spaventosa dolorosa emblematica piaga. Forse è venuto il momento di rivedere regole e ruoli, di sottrarre una parte strategica del nostro patrimonio comune alla stanca e perniciosa attenzione della burocrazia, con un diverso e più diretto coinvolgimento delle collettività interessate alla salvaguardia e all’utilizzo di risorse e beni unici, indispensabili e per altri versi irripetibili.
Ruggero Alcanterini
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