Ieri, primo giorno del 2018, abbiamo avuto il dono dell’eccezione, che dovrebbe confermare la regola, se il metro di paragone fosse sempre quello del merito, se non dell’eccellenza. E così dopo la stupenda conferma del Maestro per antonomasia, Riccardo Muti, la sera si è illuminata di un astro fisico, di un leonardesco super man di nome Roberto Bolle, che è il numero uno della danza e non a caso rappresentante di una Italia che si compiace, pur non comprendendo sino in fondo il significato del fenomeno, risultante da una fortunata possibile scelta individuale, in mancanza di una cultura della danza come educazione al movimento nel mondo scolastico, salvo le accademie pubbliche e le scuole private. Sì, perché anche Roberto è erede in linea diretta del DNA della “rinascenza”, di coloro che due secoli fa erano protagonisti anche della cronaca sportiva e godevano di attenzione dalle pagine de “Il Ciclista e la Tripletta” , poi de “La Gazzetta dello Sport” , con rubriche dedicate alla “danza accademica” tanto quanto alla ginnastica artistica e attrezzistica, che con l’atletica divisa dal podismo convivevano in un empireo di virtuosismi, che destavano stupore e ammirazione, che ponevano i protagonisti tra mito e realtà… Dalla fine del Settecento e durante l’Ottocento la rivoluzione della danza “sulle punte” e nella sua tecnica ebbe protagonisti “rinascenti” italici legati ad una straordinaria scuola, quella della famiglia Taglioni, con Carlo, padre del ballerino Salvatore e del coreografo Filippo, nonno di sua figlia Maria, grande interprete del primo balletto romantico della storia, La Sylphide, creato per lei, che accorciò la gonna del tutù ed enfatizzò i movimenti della danza sulle punte. Basta guardarlo ed è evidente che Bolle è l’espressione più alta, erede del primato nella millenaria tradizione coreutica, che è antica quanto quella dei Giochi ad Olympia o delle Panatenee ad Atene. Il “vitruviano” Roberto Bolle, è al contempo un grande artista e un grande atleta, uno che di ori olimpici e titoli mondiali avrebbe riempito il palmares, tanto quanto Riccardo Muti che, se ne valutate bene i movimenti durante i concerti – quand’è tutt’uno con la bacchetta – non è secondo per qualità dell’impegno psico-fisico a nessun campione di qualsivoglia disciplina sportiva. Per concludere, torno all’idea della rinascenza italica attraverso i grandi buoni maestri ed alla necessità che questo ruolo venga riconosciuto, oltre il successo personale nello specifico performante, che si cominci ragionare secondo principio meritocratico sulla valorizzazione e tutela dell’eccellenza, come patrimonio irrinunciabile della nostra collettività.
Ruggero Alcanterini
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