Se qualcuno dovesse ancora avere dubbi sul potere straordinario, sulla capacità di suscitare sentimenti, sul ruolo sociale dello sport, sugli aspetti positivi e virtuosi, ma anche sul versante peggiore, quello che riesce a motivare e scatenare istinti violenti, non ha che da informarsi, da spulciare le cronache , quelle recenti e quelle del passato, nemmeno tanto prossimo.Per questo, basta tornare indietro nei secoli con quella straordinaria macchina del tempo, che si è rivelato essere lo Stadio di Domiziano, il più antico impianto sportivo moderno del mondo, attraverso le sue trasmutazioni, fino alla sua fase barocca, quando Bernini, d’accordo con Donna Olympia Maidalchini-Pamphili, lo attrezzò come un’astronave, recuperando dal Circo di Massenzio l’antico obelisco del suo costruttore e organizzò l’apoteosi di un decollo verticale corroborato dai quattro fiumi più importanti del pianeta Terra, giusto in faccia alla Chiesa di Sant’Agnese in Agone, opera coeva, completata sei anni dopo dall’odiato Borromini. Nel gestaccio del Rio della Plata verso l’incognito divenire, ne risulta non uno sberleffo, ma un insulto permanente, un plateale “vaffa” a futura memoria umana, un colpo di spada atto ad uccidere con l’avversario la diversa opinione, non soltanto per quella che stava divenendo la più bella agorà del mondo, Piazza Navona. E tal quale aveva fatto qualche anno prima il turbolento Michelangelo Merisi da Caravaggio, che frequentava i paraggi per questioni di pallacorda, sport parente del tennis e in voga in quel periodo, oggi al limite della sopravvivenza, dopo aver traguardato campionati mondiali dal 1740 (Marchisio campione nel 1816) e Giochi Olimpici a Londra nel 1908. Dal 1602, Caravaggio aveva collezionato una serie di reati, sempre per eventi violenti. Il fatto più grave, quello che gli avrebbe cambiato drammaticamente la vita, però si svolse in Campo Marzio, la sera del 28 maggio 1606: a causa di una discussione per un fallo nel gioco della pallacorda, in una partita in cui era direttamente coinvolto: il pittore fu ferito e a sua volta colpì mortalmente il rivale, tal Ranuccio Tommasoni da Terni. Nella violenta rissa tra i partecipanti al gioco , erano con Caravaggio, Onorio Longhi, Petronio Troppa, gendarme a Castel S.Angelo ed un quarto uomo non identificato; in quella del deceduto, Ranuccio Tommasoni, i cognati Ignazio e Federico Iugoli, nonchè il fratello Gian Francesco, caporione dello stesso Campo Marzio. Le testimonianze dell’epoca raccontano che Tommasoni venne ferito gravemente alla coscia e dissanguato ebbe appena il tempo di confessarsi, prima di spirare ed essere seppellito lo stesso giorno nella chiesa di S.Maria ad Martyres. I coimputati del delitto, tranne il Troppa, risultarono contumaci e non venne celebrato un regolare processo. La pena comunque comminata fu l’esilio, tranne che per Michelanelo Merisi, detto Caravaggio, già in fuga verso la Liguria, per il quale fu decretata la condanna alla pena capitale, autorizzando chiunque l’avesse riconosciuto a decapitarlo. Questo episodio segnò l’inizio della fine per il grande artista, fuggito a Genova, poi a Napoli, Malta, Sicilia e infine morto, divorato dalla malaria, nel più disperato anonimato, a Porto Ercole, nel promontorio dell’Argentario, presso il sanatorio di Santa Maria Ausiliatrice, assistito dalla Confraternita di Santa Croce, il 18 luglio 1610. Per concludere, l’incommensurabile potere dello sport aveva trovato, ancora una volta, la sua combinazione chimica, modificando di non poco la stessa storia dell’arte , a Roma, in quel cortile dell’Università dei Falegnami, adattato alla pallacorda, poi Teatro Metastasio e infine luogo sacro al Risorgimento perché di riferimento per la nascita della Repubblica Romana. Dunque, lo sport non soltanto “more greco”, quello delle regole e delle celebrazioni classiche, ma anche quello nella sua espressione più passionale, fisica e non di meno culturale, com’era allora anche il gioco del pallone con bracciale, disciplina che scatenò la fantasia creativa di Giacomo Leopardi per “ Un vincitore nel pallone”…
(A UN VINCITORE NEL PALLONE)
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l’ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l’insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch’alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s’onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne’ perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.