Presentato alla 75esima Mostra Cinematografica di Venezia, Madre di Rodrigo Sorogoyen è un film che non lascia indifferenti. Dopo soli due anni dal cortometraggio omonimo, il regista decide di farne un film, trasformando i tredici minuti e mezzo di apertura, in un discreto lungometraggio. La bellissima Marta Nieto che interpreta la ‘’madre’’ ci porta nei primi minuti in sala, a momenti angoscianti e al contempo bellissimi, dando prova di un grande livello di recitazione e tenendo gli spettatori con il fiato sospeso.
Le paure dei personaggi finiscono per essere così le nostre, inserendoci immediatamente nella storia e superando o provando a superare le difficoltà che sono le nostre paure.
La scomparsa di un bambino che avviene sulle coste francesi, di cui veniamo a conoscenza tramite una conversazione telefonica, diviene un importante elemento non soltanto stilistico, ma verrebbe da dire, politico. Si possono vedere infatti i rapporti tra le società, come destinati ad evolvere profondamente proprio nelle loro situazioni più estreme. Il film allora non è soltanto la narrazione di una storia di sofferenza, ma diviene la chiave di lettura per comprendere i riti e le manifestazioni che la società velatamente propone. Fuggiamo così alle banalità con cui spesso si accompagnano le sofferenze e proprio grazie agli occhi giovani di un regista che ha alle spalle solo cinque lungometraggi, alterniamo una forte drammaticità a momenti di velata denuncia sociale. Il film sperimenta allora le emozioni sul corpo di una madre, provata dall’esperienza di cui non è colpevole ma vittima, portando un personaggio molto distante tanto vicino.
Una Madre che drammaticamente tenta di ritrovare nell’Altro il proprio figlio, svelando quella sofferenza che l’ha allontanata dal -realisticamente possibile- portandola a riscoprire i sentimenti originari di cui è stata privata. Così le emozioni si sviluppano e mutano proprio nei continui incontri che una donna (una madre) e un ragazzo (un figlio) cominciano ad intrattenere. Si dimentica ciò che il film aveva lasciato intendere nel suo prodromo e si sviluppa in maniera quasi ottimista, un nuovo pensiero. Così la regia inverte il proprio ritmo, accompagnando il film da più lontano e lasciando lo spazio a momenti di intima sofferenza. Prendendo lo spettatore per mano, l’uomo finisce per essere condotto nella dolcezza di una maternità mancata. Non importa se saltino degli equilibri ricostruiti in dieci lunghi anni. Il vero equilibrio che deve essere ricostruito è quello in grado di rimettere nella terra, quelle radici sofferenti, che se anche non vedranno più nascere un arbusto, smetteranno di chiedere l’acqua alla pioggia. Il trauma che una madre come Elena ha vissuto non sarà mai possibile dimenticarlo, eppure senza sviluppare vite parallele per alleviare il dolore, il regista intende tessere una trama complementare, mai vista come alternativa, dove le difficoltà esistono proprio nella realtà. La sua storia è infatti così diversa da quella dell’ex marito che decide di risposarsi e addirittura di avere dei figli. La Madre in questo caso nasce e muore tale e passati dieci anni, ritrova la forza per continuare a piangere e non abbandonare quel figlio che non aveva mai abbandonato, invertendo il corso della sua nuova vita (divenuta quasi normale) in una versione che va verso l’amore. Così è inevitabile scontrarsi con chi non è in grado di comprendere un sentimento tanto forte, e in questo senso il film sviluppa un percorso tra amore e paura evitando per una volta di parlare d’odio e contrapponendo all’amore proprio le difficoltà che negli estranei, questo sentimento suscita. Una paura che si vede nei genitori del ragazzo di cui Elena diventa amica e prima ancora nei sentimenti di una società che non sapendo nulla dell’uomo che è dietro un telefono (elemento di critica), arriva a crederlo nemico. E’ così che tra amore e paura si crea un vortice di luce ed ombra che, rincorrendosi per tutto il film, finisce per trovare una propria dimensione fatta solamente d’amore materno.
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