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LUIS SEPULVEDA, IL POETA DEI DUE MONDI – l’editoriale del direttore

E’ stato più Garibaldi che Leopardi, anche se Luis Sepúlveda con il conte Giacomo ha avuto in comune il fine vita, troncato da un pandemico morbo. Ma pochi che fossero, per Leopardi, i trentanove anni di sofferenze conclusi per il colera a Napoli, nel 1837, quelle primavere e quegli inverni vissuti, erano stati comunque un tempo sufficiente per renderlo immortale, associato al concetto poetico dell’infinito. E invece, ne sono occorsi settanta per il poeta cileno, nato ad Ovalle, forgiato nel crogiuolo delle peripezie, ispirato alla filosofia bolivariana, che ha finito per concludere i suoi versi nella terra adottiva degli antichi rivali ispanici , ad Oviedo. Paradossalmente il nemico da cui è stato sopraffatto, il Coronavirus, è campione di equità proletaria nel falciare indifferentemente oppressi ed oppressori, come capitò con la tubercolosi che spense il sogno di riscossa del modello di Luis, appunto Simon Bolivar, a cui non era insensibile lo stesso Eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, che nel 1851 si era addirittura recato a Paita, in Perù, per incontrare Manuelita Saenz, antica compagna di Simon. Ma perché l’idea bolivariana di un rivoluzionario socialista, trasmutato in letterato apolide e simbolo dell’amor gentile ci affascina e ci spinge a trattenerlo per la mano, mentre il vento di Borea lo trascina inesorabile nella rigidità della morte fisica? Ma diamine, perché Sepúlveda era, rimane e rimarrà per noi simulacro, erede in linea moralmente diretta di quel che era lo spirito dei visionari, come lo stesso Washington, nel trapasso epocale che portò all’idea del sovvertimento e del cambiamento lo stesso Giuseppe Mazzini con il suo sogno europeo. Ecco, quando Bolivar venne in Italia, nel 1805, dopo il trauma napoleonico milanese, trovò a Roma, sulle alture di Monte Sacro, memore dell’orazione di Menenio Agrippa ai plebei, la straordinaria ispirazione che lo avrebbe spinto alla travolgente azione rivoluzionaria in America Latina. Quel “Juro delante de usted, juro por el Dios de nos padres, juro por ellos, juro por mi honor y juro por mi Patria, que no darè descanso a mi brazo ni reposo a mi alma hasta que haye roto la cadenas que nos oprimen por voluntad del poder Espanol.”, che lo avrebbe accompagnato per il resto della sua avventura terrena, sgorgava dalla sua anima libertaria giusto in quel di Roma, dove lo stesso Garibaldi avrebbe poi misurato il suo divenire. Tornando a Luis Sepúlveda, bisogna pensare che anche lui, a conclusione di un ciclo avventuroso, aveva trovato infine il beneficio della temperanza e l’armonia dei sensi nel clima solidale dell’Europa. Un Continente vetusto, rilassato e comunitario, a cavallo del secondo e terzo millennio, che lo aveva visto apolide tra Germania e Francia, quindi cittadino senza confini, poeta cinto d’alloro tra Spagna e Italia, predestinato depositario, ultimo dei romantici eroi narratori, da cui non possiamo e non dobbiamo escludere Salgari, Hemingway e Pasolini, tutti mitizzati da sanguinoso lavacro. Per questo, la creazione letteraria, che più di altre consacra Sepúlveda, la mite “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” non ci deve trarre in inganno, perché in realtà il suo cuore – in una gabbia d’amore – era sempre quello del ragazzo cresciuto dallo zio anarchico a Valparaiso, nutrito dalle suggestioni di Cervantes, dello stesso Salgari, Conrad e Melville, svezzato e poi espulso dalla Gioventù Comunista, amico di dissidenti e cacciato dall’URSS, in disaccordo col padre e volontario nell’ Esercito di Liberazione Nazionale in Bolivia, prima di tornare comunista, quindi passare al Partito Socialista e nel Grupo de Amigos Personales , a guardia del Presidente del Cile, Salvador Allende e poi vittima della rappresaglia di Pinochet, ritemprato dalla guerriglia in Nicaragua e dalla cultura indigena equadoregna, in qualche modo emulo di Ernesto Guevara, el Che. Se mi è consentita la battuta, lo straordinario Luis, nato ad Ovalle, ucciso da virus killer ad Oviedo, volendolo associare agli animali, spesso interpreti del suo fantastico narrare, non era un ovino, ma un autentico leone. Ed è questo il segreto del suo straordinario successo, di essere personaggio, oltre le milionarie pagine dei suoi libri.

Ruggero Alcanterini

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