“Del barbarico sangue in Maratona/Non colorò la destra/Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,/Che stupido mirò l’ardua palestra…” Scomodo Giacomo Leopardi per richiamare l’attenzione su Recanati, Senigallia, Ascoli, Pesaro, le Marche tutte, che dettero nobili origini al nostro sport, con il trapasso dal Rinascimento al Novecento di una fascinosa disciplina come il gioco del pallone con bracciale, molto popolare sino agli anni venti e poi soppiantata dal “pallone senza”, quello che si gioca con i piedi e la testa. Come sapete, quella che fu la patria del raffinato poeta, autore de L’Infinito, adesso è impegnata in una sfida durissima contro il contagio da COVID 19 e penso che il modo migliore per darle ruolo e vigore agonistico, sia quello di rimembrare la nobiltà delle sue radici, che mai hanno cessato di trarre linfa dal generoso humus della cultura popolare, da cui lo sport si origina. Carlo Didimi, il fuoriclasse coetaneo del Conte poeta, che a lui si ispirò per il quinto dei suoi Canti, nel 1821, influenzò non poco anche gli orientamenti di Giovanni Maria Mastai Ferretti, poi passato alla storia come Pio IX, l’ultimo Papa Re. Voglio ricordare che giusto tre anni fa si celebrava un evento nazionale di sintesi “centenaria” con il CONI e connotato da riflessioni di supporto ad un progetto di proposta sfumato poi negli Stati Generali e nelle successive contorsioni dall’esito al momento non definito. Da Recanati proveniva anche il contributo rilevante di un personaggio come Giacomo Brodolini, Ministro del Lavoro, Presidente fondatore dell’AICS nel 1962, allora Associazione Italiana Circoli Sportivi e con lui, da Pesaro, il maestro di noi tutti, dei “Senza Cena”, con Alfredo Berra e Argante Battaglia, il prof. Probo Zamagni, pioniere e promotore con la FISAM (Federazione Italiana Scienze Attività Motorie) della facoltà universitaria, prima delizia e poi croce, come finora è capitato per gli innovatori della ricerca e della prevenzione salute nell’Italico Stivale, cui vogliamo sperare il futuro riservi un diverso destino.
A UN VINCITORE NEL PALLONE
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l’ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D’emula brama il punse. E nell’Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l’opre de’ mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l’insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch’alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l’aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l’atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s’onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla:
Beata allor che ne’ perigli avvolta,
Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
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